Acqua e vino nella sacralità fondante del linguaggio

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In nome dell’Assunta,/fratelli, battetevi”: a questo invito, pronunciato con voce stentorea dal Capo dei battenti, centinaia e centinaia di devoti si inginocchiano sul sagrato, incominciano a percuotersi a sangue il petto, mentre il quadro della Madonna esce dalla chiesa di Guardia Sanframondi, nel Sannio beneventano.

È il 15 agosto 1975 e io, con una équipe composta da studiosi, cineasti, colleghi e studenti dell’Università di Napoli, dove tengo l’insegnamento di Antropologia culturale, seguo il rituale pronto a farlo riprendere e a osservarlo nei punti più significativi del paese. A questa giornata siamo giunti dopo aver fatto durante i mesi precedenti numerosi sopralluoghi assieme a Lello Mazzacane, mio collaboratore all’università, che aveva già studiato la festa, a lui ben nota anche perché Cerreto sannita, a pochi kilometri di distanza da Guardia, è il paese d’origine della sua famiglia.

Sembra un rituale “arcaico” e quindi destinato a scomparire rapidamente, perché confinabile in ambiti sempre più ristretti, proprio perché strettamente connessi a un lontano passato. Ma l’osservazione diretta – che è sempre il banco di prova su cui verificare le nostre affermazioni ideologiche – smentirà questa facilistica previsione.

Seguirò negli anni le scadenze settennali notando come via via il numero dei battenti cresca sempre di più: 600, 900, oltre 1000, 1500. Non sono soltanto persone anziane o adulti, “battenti” per tradizione familiare e appartenenti alle classi subalterne, ma anche giovani, spesso laureati o studenti universitari che si accostano a questo rituale con un misto di attrazione e curiosità.

La festa sarà sempre più oggetto di interesse da parte di curiosi, giornalisti, studiosi: l’ultimo, in ordine di tempo, il rigoroso e appassionato lavoro di Vincenzo Esposito, Il tempo dell’Assunta – Riti, immagini e storie a Guardia Sanframondi, Salerno Oèdipus, 2017, con un denso saggio di Dina Gallo e stimolanti scritti di altri ricercatori.

Il sangue si pone come simbolo di appartenenza identitaria – è “la comunità del noi-battenti” che si costituisce, come organo della società di Guardia, per porsi in una dimensione supplice rispetto alla Divinità ché invii sulla terra l’acqua essenziale per l’economia vinicola della zona. Acqua-vino-sangue costituiscono una triade che è dato ritrovare in numerosi rituali anche extraeuropei ritenuti atti a impetrare la pioggia.

Così, ad esempio, «tra i Wambuywa dell’Africa orientale quando lo stregone vuol far venire la pioggia, prende una pecora nera e un vitello nero, e li mette sul tetto della capanna comune, dove tutti vivono insieme. Apre quindi lo stomaco degli animali e ne sparge il contenuto in tutte le direzioni. Dopodiché versa in un vaso dell’acqua e una droga; se l’incanto è riuscito l’acqua bolle e cade la pioggia […].

Per far venire la pioggia i Wagogo sacrificano delle galline nere, delle pecore nere, e del bestiame nero alla tomba degli antenati […]. Tra i Matabele l’amuleto per la pioggia usato dagli stregoni era fatto col sangue e con la bile di un bove nero. […] I Garos dell’Assam, in tempo di siccità, sacrificano una capra nera sulla cima di un alto monte. […]

I Timoesi sacrificano un porco nero alla dea della Terra per aver la pioggia […]. Gli Angoni sacrificano un bove nero per la pioggia […]. Fra la alte montagne del Giappone v’è un distretto in cui, se la pioggia non è caduta da molto tempo, gli abitanti del villaggio vanno in processione al letto di un torrente montano, guidati da un sacerdote che porta un cane nero.

A un certo punto legano un cane a una pietra e ne fanno un bersaglio pe’ i loro proiettili e le loro frecce. Quando il sangue ha macchiato una roccia, i contadini gettan le armi e innalzan la voce a supplicare il Dragone, divinità del fiume, esortandolo a mandare giù un acquazzone per pulire il luogo della sua macchia. […]

L’intima associazione tra le rane e i rospi e l’acqua ha procurato a questi animali una diffusa reputazione di custodi della pioggia; e quindi essi hanno spesso parte nelle malie destinate a far venire dal cielo gli acquazzoni desiderati. […] Gli indiani Thompson della Colombia britannica, come anche taluni in Europa, credono che l’uccidere una ranocchia faccia venir la pioggia», così James Frazer nel suo fondamentale Il ramo d’oro.

Ai battenti di Guardia Sanframondi possono essere assimilati i flagellanti di Nocera Tirinese nella Settimana Santa nel Lametino, in Calabria, e quelli di Verbicaro, in provincia di Cosenza. Il sangue, come cifra di identità e suo ulteriore rafforzamento lo ritroviamo in forma ancora più enfatica nel culto di San Gennaro a Napoli, nella quale l’intera popolazione napoletana e campana si riconosce e sul quale fonda la propria esistenza simbolica.

Su tale culto Maricla Boggio e io abbiamo realizzato negli ultimi quattro anni un’approfondita ricerca sul campo, che si è protratta per diversi anni, nel corso dei quali abbiamo assistito al “miracolo” della liquefazione del sangue, che si realizza in tre ricorrenze all’anno, come alla liquefazione del sangue di Santa Patrizia, seconda Patrona di Napoli, custodito dalle Suore Crocifisse nel convento adiacente alla chiesa di San Gregorio Armeno.

Il 25 agosto di ogni anno il sangue considerato della santa e racchiuso in un’ampolla d’argento di preziosa lavorazione artigianale si scioglie e durante una messa celebrata in suo onore che viene mostrata ai fedeli che accorrono da ogni parte d’Italia e anche da altri Paesi, come accade nelle già ricordate ricorrenze di San Gennaro.

Oltre che nel giorno di agosto, ricorrenza della sua festa, il sangue di Santa Patrizia, secco e aderente alle pareti di vetro, si scioglie ogni martedì alle 11: è un appuntamento preciso che – a quanto ci hanno detto le Suore, non viene mai disatteso, anche se chiariscono che il vero miracolo sono le opere di carità alle quali si dedicano con vero spirito missionario.

A prescindere da tutte queste ricorrenze, mentre Maricla Boggio e io osservavamo il sangue nella teca, questo si è sciolto “miracolosamente” sotto i nostri occhi. Il sangue di San Gennaro ha attratto l’interesse di filosofi-eruditi quale Benedetto Croce (per il quale lo scioglimento del sangue avviene per la prima volta il 17 agosto 1389), di scrittori, quali Alexandre Dumas (Il Corricolo) e Matilde Serao, che afferma, tra l’altro, che «un po’ del sangue del Santo sia stato portato a Madrid da Carlo III che lo tolse dalla seconda ampollina, di Napoli, quando se ne ritornò in Ispagna».

Secondo la scrittrice napoletana, nella chiesa di Madrid il sangue si scioglie a maggio e a settembre, nella stessa ora, in cui il fenomeno si verifica a Napoli. Maricla Boggio e io abbiamo tentato di verificare tale affermazione, ma non siamo riusciti a trovare conferme in merito. Anche registi cinematografici hanno rivolto la loro attenzione al culto di San Gennaro, si ricordi per tutti il film di Dino Risi, Operazione San Gennaro.

Né è mancata l’attenzione in ambito antropologico: Marino Niola, ad esempio, ha rilevato come a metà del Seicento un frate domenicano abbia steso un catalogo di Sancti corpi et insigni Reliquie che sono nella città di Napoli; in esso “i pezzi catalogati sono alcune migliaia, enumerati in sequenze in cui il sacro sembra scomparire dietro al comico e al grottesco.

I soli corpi interi sono seicento ed alcune centinaia di teste, le più nobili delle reliquie. Sono tante e circondate da un’aura particolarmente miracolosa le numerose ampolle e fiale contenenti il sangue di santi e beati. Se il soprannaturale automatismo tra reliquia e miracolo è segno e verifica stringente della condizione di santità, la protezione che i santi elargiscono alla città ha il suo sacrale sigillo nel sangue ‘periodicamente zampillante dalle teche’ ” (M. Niola, Il corpo mirabile – miracolo, sangue, estasi nella Napoli barocca, Roma, Meltemi, 1997).

In tale prospettiva lo studioso sottolinea che “in questo clima di sacre meraviglie, il sangue che bolle e brilla riga di innumerevoli rivoli scarlatti l’anima religiosa della città: sono decine le liquefazioni prodigiose che hanno, nel miracolo dell’antico Vescovo e martire il referente paradigmatico.

A cominciare dal sangue di San Giovanni Battista – che ‘fa l’istesso effetto che fa il sangue del glorioso S. Gennaro’ – e di Santa Patrizia fino a quello dei santi Lorenzo, Pantaleone, Andrea Avellino, fonti ormai secche, queste, con l’eccezione di Patrizia. È tale il numero delle ampolle miracolose, orgoglio e vanto dei monasteri più potenti, che Jean Jacques Bouchard, l’abate parigino dottore in utroque e dal 1631 al 1641 gentiluomo di camera del cardinal Barberini, dopo aver soggiornato a Napoli nel 1632 si riferisce alle reliquie ematiche e alle loro liquefazioni prodigiose come prerogativa ‘particulière à Naples, qui puor cela s’appelle urbs sanguinum’ ” (Ibidem).

Di tutto ciò Maricla Boggio e io abbiamo dato conto nel volume, a nostra cura, San Gennaro. Viaggio nell’identità napoletana, Roma, Armando, 2014. Anche il vino si inserisce in un vastissimo scenario simbolico ed è oggetto, nelle culture folkloriche, di profonde ambivalenze. Da un lato, è particolarmente gustato e desiderato – le osterie sono nei paesi meridionali, e non soltanto in essi, uno dei pochi centri di aggregazione –; dall’altro, l’eccesso di vino è stigmatizzato come vizio e segno di uomo di scarso valore, “ubriacone” è termine con una forte connotazione negativa, come negativamente connotata è l’espressione proverbiale calabrese omu di vinu/ non vali un carlinu (il carlino è stato, come è noto una moneta preunitaria).

Da notare, però, che numerose parabole siciliane raccontano di un vino connesso al Sacro, ad esempio inesauribile perché adagiato sulla tomba di un santo, chiara testimonianza della sua sacralità. Questa, d’altronde, è testimoniata dai brani neotestamentari nei quali il Cristo identifica il suo corpo e il suo sangue nel pane e nel vino dell’ultima cena con i suoi discepoli, ai quali viene rivolato l’invito di fare lo stesso in sua memoria e quali suoi alter ego.

Innumerevoli credenze e altri documenti demologici testimoniano la vastità degli scenari simbolici e il variegato reticolo cui il sangue rinvia e la documentazione al riguardo sarebbe oltremodo agevole, ma quanto già scritto mi appare sufficiente a sottolineare l’assoluta centralità del sangue nell’orizzonte folklorico, e non soltanto in esso.

A completare la trilogia liquida già presente nel titolo di questo scritto, ricorderò come essa sia essenziale per la preminenza della vita e per la sua proiezione nel tempo futuro dei singoli e della società. Il linguaggio di tali liquidi consente che gli altri linguaggi siano detti, che nell’universo possa sillabarsi in un discorso umano.

Il linguaggio mistico ha colto la radicale verità del linguaggio del sangue, la sua terribilità. E, per altro verso, con minore mediazione intellettuale, ma con non minore connessione simbolica, le ha intese la cultura folklorica che nel mormorio del sangue ha individuato un filo di discorso e a esso è rimasta attaccata, nonostante il rumore e la violenza dei processi acculturativi.

La cultura tradizionale – quale che sia il giudizio che se ne voglia dare nel quadro di una diversa cultura che si arroga potere giudicante e mette a fuoco con una lucidità di tipo perverso meccanismi di storiografia giudiziaria – ha saputo elaborare un discorso e non lascia di fronte alla morte senza parole.

Gli uccelli, si sa, emigrano, con l’approssimarsi dell’inverno – stagione apportatrice di pericolo e di morte – e con loro si allontanano le tracce di sangue che il colore delle loro piume ricorda, secondo un mito caduveo raccolto da Claude Lévi-Strauss. Non è un caso che nella cultura tradizionale l’approssimarsi di un diverso sistema culturale, apportatore, ancor più dell’inverno, di pericolo e di morte, abbia fatto allontanare le tracce di sangue tentando di trasformare il murmuru del sangue stesso in pietrificato silenzio.