Festa del cibo, cibo della festa

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Si è conclusa da qualche settimana la Pasqua, che ho vissuto tentando di realizzarne il suo significato profondo di rigenerazione spirituale, di rifondazione del nuovo tempo che rende possibile – attraverso il sacrificio di Cristo –, il trascendimento della morte, da parte dell’uomo precipitato nel peccato.

Ma, accanto all’essenziale significato spirituale, per me Pasqua significa i cibi tradizionali che mangio in quell’occasione e che collegano i miei anni al passato, ai ricordi che tramano la mia vita, alle persone incontrate e amate, a ciò che rende la mia esistenza un bene singolarissimo e ineludibile.

E allora ad esempio c’è il campanaro, un pane nel quale sono state conficcate uno o più uova prima di essere infornato: una volta cotto, veniva mangiato insieme alle uova stesse, che bisognava sbucciare attentamente, così da non disfarle.

È un’esperienza che tutti i meridionali conoscono, che cadenza il tempo pasquale. Nella mia casa di San Costantino di Briatico, dove sono nato e dove continuo a ritornare sistematicamente – come ancoraggio e rifugio quali che siano le mie peregrinazioni per il mondo –, ogni anno venivano infornate centinaia di uova, fino a colmare un grande vassoio di ceramica e consentire a ogni componente della famiglia di attingervi liberamente a prescindere dall’orario dei pasti.

Altra pietanza a me profondamente familiare era il fricò. Su una grande e alta teglia venivano poste delle grandi fette di pane di grano duro, inzuppate a lungo nel latte; su questo primo strato si poneva abbondante ricotta salata, provola, soppressata affettata, uova sode – anch’esse tagliate a fette –, piselli (allora giunti da poco a maturazione).

Al di sopra, un altro strato identico, chiuso con un ultimo strato di pane imbevuto. Il composto veniva dunque infornato e lasciato cuocere a lungo, fino, cioè, alla doratura della parte superiore. Il fricò è più buono mangiato freddo: si distingue meglio il gusto dei diversi ingredienti.

So che questa è una pietanza esclusiva della mia tradizione familiare: si narrava, da noi, che il fricò fosse bagaglio della mia zia Marietta, sorella di mio padre, maritata con il prof. Rocco Loschiavo Pellicano, colto studioso di Taurianova, docente e poi stimato Preside, a Messina.

Dunque una pietanza siciliana; eppure, a nessuna delle mie conoscenze palermitane o messinesi, cui nel tempo ho più volte chiesto notizia, risulta nota. All’approssimarsi della Pasqua, ricordo "Il fricò è più buono mangiato freddo: si distingue meglio il gusto dei diversi ingredienti." che mio zio Nicola, dopo aver fatto predisporre tutti gli ingredienti necessari sulla tavola da pranzo, sovrintendeva all’accurata preparazione del fricò: completato l’articolato procedimento, veniva infornato.

Era un momento così importante per la famiglia, che i nostri cugini, i Marzano di San Costantino, venivano ad assistervi, con l’obiettivo di poterlo riprodurre da sé, più fedelmente possibile. Quest’anno, come in anni precedenti, è stata mia sorella Concettina, fedele alla tradizione, a preparare un fricò, per i familiari più stretti; l’ho mangiato anch’io, come se compissi un rito.

Pure come tale ho condiviso con gusto, per pranzo, il capretto al forno con patate: pietanza che ugualmente segnava il mio tempo della Pasqua, insieme alla consegna a casa nostra del capretto stesso, da parte dei mandriani, così come previsto da un contratto regolarmente stipulato.

Per noi calabresi il dolce pasquale erano le pie o pittapie: dolci poveri, fatti di pasta azzima, che contengono mosto cotto e noci grattate. Sottolineando particolari autobiografici, ho voluto porre in risalto come il cibo segnali la festa e in qualche maniera ne costituisca segno e simbolo, ricapitolazione di sé e della propria storia, individuale, familiare e comunitaria; progettazione di futuro possibile.

Nel bel libro di Vito Teti, Il pane, la beffa e la festa, – approfondita ricerca sul cibo nel suo paese natale, San Nicola da Crissa, nelle Serre calabresi –, lo studioso ricorda come l’alimentazione sia «segno e simbolo» e «appare in tutte le manifestazioni della vita di un popolo e viene a configurarsi anche come vera e propria sovrastruttura mentale e, quindi, come “ideologia”.

Un cibo, oltre a soddisfare un bisogno primario e provocare conseguenze di vario genere, può essere assunto, ad esempio, come sogno erotico o sessuale, come mezzo di comunicazione in generale, come messaggio di solidarietà, come dono, come oggetto votivo e rituale, come simbolo, che, nelle manifestazioni della vita quotidiana e nella produzione letteraria folklorica tradizionale (proverbi, racconti, canti, ecc), rinvia ad una serie di significati profondi, di credenze implicite e al modo di essere e di pensare di un popolo storicamente determinato.

In quanto segno e simbolo l’alimentazione è l’elemento che si modifica più lentamente nel tempo, come si può vedere – ad esempio – […] dall’esame della cultura degli emigrati calabresi nelle diverse parti del mondo» (Teti 1976: 11).

Esiste comunque un’ampia letteratura demologica, in Calabria, ricca di notizie sull’universo gastronomico connesso al ciclo festivo tradizionale: dagli approfonditi studi di Ottavio Cavalcanti di antropologia dell’alimentazione, alle opere di Francesco Faeta, Mariano Meligrana, Maria Pascuzzi, Giovanni Sole, Vito Teti, me stesso.

Ma, dunque, ricordo anche, per altri territori, l’ampia letteratura scientifica prodotta da Antonino Buttitta, Fatima Giallombardo e qualche altro collega dell’ateneo palermitano, per la Sicilia; per l’Abruzzo Alessandra Gasparroni, e, con rapido passaggio ad una regione del Nord, i puntuali lavori di Piercarlo Grimaldi e Davide Porporato.

Il dolce, invece, con cui si identifica la Pasqua per i napoletani o comunque per coloro che frequentano la splendida città sul golfo, è la pastiera: pasta frolla a base di strutto al posto del burro, contiene ricotta con grano cotto nel latte, zucchero, uova, acqua di fiori di arancio, buccia di limone grattugiata, cedro candito e – in qualche caso –, due cucchiai di crema pasticcera.

A proposito della Pasqua si può riflettere poi sull’uovo: su di esso si è addensata nel tempo una molteplicità di significati simbolici che ne esaltano il valore di perfetta essenzializzazione dell’universo, come ha messo in risalto esemplarmente la storia delle religioni a partire dagli studi fondamentali di Mircea Eliade.

La cultura dei consumi, con la sua onnivoracità e la conseguente capacità di piegare ai propri fini tratti ed elementi della tradizione, ha ripreso il tema dell’uovo e ne ha fatto, come è noto, un elemento che si associa automaticamente all’evento pasquale.

All’approssimarsi di esso, le vetrine di pasticceri e negozi si affollano di uova di cioccolato, rivestiti con carta multicolore, di ogni forma e dimensione, contenti “sorprese” più o meno ricche e variegate, da consumare la domenica di Pasqua e in particolare da regalare ai bambini e adolescenti, in modo che possano romperle al termine del pranzo domenicale, con tripudio dei commensali.

Mio nipote Guglielmo, col quale condivido golosità e gioiosa partecipazione ai rituali alimentari familiari, conclude il pranzo domenicale rompendo uno dietro l’altra le uova che gli sono state regalate, accumulando cioccolata, sorprese, carte stagnola e così via, in modo che sembra celebrarsi in quel momento la festa del cioccolato.

La stessa logica di strumentalizzazione di forme alimentari tradizionali dell’imperante cultura dei consumi è stata operante da anni. Sul finire degli anni Sessanta e nei primi anni Settanta del secolo scorso, pubblicai una serie di fiabe pubblicitarie, che la Barilla aveva riprodotto all’esterno della confezione per presentare via via i diversi tipi di pasta della loro catena di produzione.

La fiaba era ripresa dalla tradizione, però era stata adeguatamente smontata e riorganizzata in modo da rendere evidente che le gesta che rendevano invincibile l’eroe erano dovute appunto al determinato tipo di pasta.

Del resto la stessa Casa aveva elaborato fortunatissimi slogan, come quello che affermava solennemente: “Con Pasta Barilla è sempre Domenica”, in cui la pasta e la festa costituivano elementi che si richiamavano reciprocamente potenziandosi a dismisura.

Anni prima la Galbani aveva incaricato il noto cantastorie siciliano Ciccio Busacca, per farlo girare per tutti i centri dell’isola. In essi, nel corso di spettacoli accuratamente preparati, il bravissimo cantastorie che esaltava le mirabili gesta di Galbaliuni, eroe che interveniva in situazioni drammatiche risolvendole positivamente: fermava i treni, bloccava macigni che stavano per abbattersi rovinosamente su persone e cose, compiva cioè tutti quei gesti miracolosi che la tradizione affida ai santi e agli altri inviati della Provvidenza.

Al termine dello spettacolo, gli agenti della Galbani facevano il giro delle rivendite di alimentari dei diversi centri, lasciando in omaggio delle riproduzioni di Galbaliuni e sollecitando ordinazioni consistenti dei prodotti Galbani.

Le feste patronali che si svolgono nei mesi primaverili e in quelli successivi, volta a volta esaltano una determinata pietanza che appartiene alla tradizione locale, rievocando l’evento storico fondante o una vicenda lontana nel tempo e che la pietanza richiama alla mente.

Vorrei a questo punto citare giusto un esempio tra le minoranze linguistiche in Italia, in particolare del contesto delle valli occitane: «Pochi giorni dopo la festa di Sant’Antonio abate nel comune di Chiomonte (TO), in Val di Susa, a ridosso dei Parchi naturali del Gran Bosco di Salbertrand e dell’Orsiera-Rocciavrè, si celebra, il 20 gennaio, la festa patronale di San Sebastiano.

Nell’occasione si prepara per la messa del tempo festivo un pane disegnato con figure di fiori racchiuse in una cornice a tratteggi che viene portato in chiesa e benedetto. Un gruppo di coscritti, i priori, porta in processione la puento, un grande fuso di nastri colorati. Le coscritte, le priore, che indossano il costume tradizionale occitano, assieme a bambini vestiti da angeli, distribuiscono intanto i pezzetti del pane sacro.

Si consuma insieme il pranzo e si continua la danza della puento fino a sera con il corteo che si ristora nelle visite alle case delle priore che offrono biscotti e vino» (Davide Porporato: 2016). L’esemplificazione potrebbe durare molto a lungo, e quasi sempre Cibo e Festa sono termini di una coppia che si ripresenta costante nell’orizzonte della cultura tradizionale al punto che si potrebbe agevolmente sostenere: cibo è festa.

Ma per altro verso, è anche vero che festa è cibo. L’istituto della festa essenzializza il tempo, lo ricapitola e lo rifonda; per il solo fatto di essere posto in essere, attrae a sé il cibo previsto per quella determinata occorrenza, conferendogli significato ulteriore e capacità di connessioni simboliche e metafisiche.

Ai primi di novembre, nelle case meridionali vengono regalati ai bambini le ossa dei morti: si tratta di biscotti la cui forma richiama proprio delle ossa; a base di farina, chiodi di garofano, cannella, vengono cosparsi di zucchero a velo in modo da richiamare l’aspetto di ossa anche nel colore.

L’usanza è talmente diffusa che non solo nelle case, anche nelle vetrine di pasticcerie delle due città dello strettoho notato tali dolci ed anche a Roma, esposti espressamente con tale denominazione. A me sembra che essi possano costituire emblematicamente il ponte tra l’aldiquà e l’aldilà, tra quanti di noi siamo ancora nel mondo e coloro che sono stati costretti ad abbandonarlo.

Tale ponte rende possibile la vita a noi che siamo rimasti, collegandoci a quell’aldilà che costituisce il fondamento metastorico della nostra esistenza. La liturgia dell’Amore e del dono rende così possibile la continuazione dell’umano operare.