Il racconto di Ignazio al di là del testo narrativo

Il racconto di Ignazio è uno dei pochissimi testi narrativi Romeni che mantengono ancora un uso strettamente rituale.

Ignazio è il nome generico usato in romeno per riferirsi a Sant’Ignazio di Antiochia, il vescovo cristiano di origine siriana, martirizzato a Roma, intorno al 107 d.C., quando, dopo essersi definito “«frumento di Cristo», venne gettato in pasto ai leoni del Colosseo, andando incontro a una morte quasi subitanea (Farmer, 1992 ed.1999, 271).

La Chiesa Ortodossa Romena commemora Sant’Ignazio, detto il Teoforo, il 20 dicembre. Per i romeni, questo è un giorno particolarmente importante, non perché racchiuda chissà quali speciali valenze religiose, bensì perché, in accordo a una tradizione precristiana, questo è il giorno della macellazione dei maiali.

Il racconto di Ignazio, che analizzeremo a continuazione, non è agiografico. Non rimanda alla vita del martire cristiano, bensì a un personaggio che viene rievocato ogni anno nei villaggi romeni della zona occidentale della Transilvania e del Banato —“Fino adesso conoscevo 50 varianti analoghe a AA.Th. 812 raccolte in tutte le provincie. La maggior parte, nonché le più interessanti, provengono dalla Transilvania, soprattutto dalla zona meridionale di questa regione” (vedi Cuceu, 1999, 11o), — per la sua irresistibile tentazione di macellare il maiale.

Il racconto di Ignazio è uno dei pochissimi testi narrativi romeni che mantengono ancora un uso strettamente rituale (Eliade, 1978, 1o). Viene riproposto solo in detta occasione e pare che svolga la funzione di rievocare avvenimenti accaduti ille tempore: “Il giorno di Sant’Ignazio cade cinque giorni prima di Natale. È segnato persino nel calendario.

Gli anziani, la sera, in questa ricorrenza, ci raccontavano sempre la sua storia. Dicevano: Proprio in questo momento Ignazio sta dicendo a sua moglie che domattina andrà a caccia” (Florica Ardelean; 65 anni; Bichi?; registrato nel 1968, mgt. 151 dell’Archivio del Folclore dell’Università dell’Ovest di Timi?oara). “Questo è un antico racconto che ci narravano i nostri nonni. C’erano una volta marito e moglie che erano molto poveri.

Si era alle porte del Natale e tutti macellavano il maiale. Ma loro erano poveri, non possedevano maiali, non possedevano nulla. Allora, cinque giorni prima di Natale, l’uomo disse alla moglie: — Moglie mia, tutti hanno un porco da macellare, ma noi cosa possiamo fare se non abbiamo manco un maiale?

Domattina andrò a caccia, magari scoverò qualcosa nel bosco, così anche noi avremo per le feste qualcosa da dare ai bambini. — Bell’idea. Vai pure! L’indomani mattina, l’uomo si alzò e si recò nel bosco. Camminò a destra e a manca, quando a un certo punto, lungo un sentiero, s’imbatté in un pope. Il pope recava con sé nove maiali belli grassi.

Questi gli domandò:— Dove vai, brav’uomo? E Ignazio rispose: Eh povero me, sto cercando qualcosa da cacciare. Ho sette figli e una moglie, e sai com’è, arrivano le feste e non ho manco un maiale da macellare, non ho niente. Ma scoverò qualcosa.

— Senti un po’, ribatté il pope. Io ti dono questi bei grossi maiali, te li porti a casa, li macelli, e li mangi come ti pare e piace, e tu in cambio mi dai quello che hai in casa ma che ignori di avere. E lui rispose: — Io in casa ho solo mia moglie, otto bambini e una vitellina.

— Dammi quello che hai in casa ma che ignori di avere. — Va bene, assentì il pover’uomo, che sapeva di avere in casa solo quelle cose lì. Prese i maiali e se li portò a casa. Come al solito, quando lo videro arrivare, i figli gli corsero incontro.

Ma, invece di rallegrarsi per avergli portato i maiali per Natale, la prima cosa che gli dissero fu: — Papà. papà, la mamma ci ha fatto un altro fratellino! Al sentire queste parole, l’uomo esclamò tutto infuriato: — Dio mio, adesso verrà il pope e si porterà via il bambino. Ce l’avevo a casa e non lo sapevo. Tutto afflitto, entrò nell’aia… La moglie, appena lo vide, gli domandò:

— Dove hai preso questi maiali? — Be’, ce li aveva un pope che ho incontrato per strada; mi ha detto che mi donava questi nove maiali grassi, per mangiarli in famiglia, ma, in cambio, mi ha chiesto di dargli quello che ho in casa ma che ignoro di avere. E adesso sono disperato perché i bambini mi hanno detto che abbiamo un nuovo figlio.

Cosa potevano fare adesso? Erano afflitti, ma non sapevano come venirne fuori. Giunse la sera. Volle il caso che Dio e San Pietro, che girovagavano per il mondo, bussassero alla loro porta pregandoli di lasciargli passare la notte lì a casa loro.

L’uomo rispose: — Non c’è spazio. C’abbiamo tanti figli, e mia moglie ha appena dato alla luce un altro bambino. Non abbiamo dove… — Ascolta, facci accomodare vicino alla stufa, ci faremo a terra un giaciglio con le nostre bisacce. — Va bene, acconsentì lui. I due forestieri entrarono e si sistemarono presso la stufa. Dio e San Pietro andarono a coricarsi sulle loro bisacce. In quel mentre, i bambini stavano abbeverando la vitellina. La vitellina defecò.

Dio disse allora: — Bambini miei, raccogliete lo sterco con una pala e riponetelo nel forno. Domani mattina troverete una bella pagnotta. I bambini obbedirono. Presero una pala, raccolsero lo sterco, lo misero nel forno e venne fuori una pagnotta.

Subito dopo, la vitellina si mise a urinare. E Dio disse: — Raccoglietela in una pentola, diventerà latte! I bambini così fecero, e ne ottennero del latte. E Dio aggiunse: — Conservatelo per le feste! Tutti andarono a dormire, ché era già tardi. A mezzanotte sopraggiunse il pope per riscuotere quanto promesso.

Gridò fuori dalla finestra: — Ignazio! Ignazio! Vieni fuori a pagare il tuo debito! Allora Dio gli disse: — Tu non rispondergli. Lascia fare a me, gli parlerò io! E il pope da fuori… (Ma questi non era il pope, era Satana in persona…) — Ignazio! Ignazio! Vieni fuori a pagare il tuo debito! Allora Dio esordì: — Prima però, perché non vediamo chi è più bravo negli indovinelli! E il pope rispose: — Ci sto! E quest’ultimo incominciò: — Indovina indovinello, ce ne ha uno solo, chi è? Dio rispose: — Un buon fucile con un solo colpo in canna! — Ce ne ha due, chi è? — L’uomo, che ha due occhi per vederci bene! — Ce ne ha tre, chi è? — L’uomo che si fa il segno della croce con tre dita! — Ce ne ha quattro, chi è? — Il carro, che avanza spedito con le sue quattro ruote! — Ce ne ha cinque, chi è? — L’uomo che grazie alle cinque dita della sua mano può lavorare al meglio. —Ce ne ha sei, chi è? — L’aratro, che ara bene se trainato da sei buoi. — Ce ne ha sette, chi è? — Sette fanciulle riunite in una veglia. Con sette la veglia è al completo. — Ce ne ha otto, chi è? —Una casa in cui vivono otto baldi giovani è al sicuro dai malintenzionati. — Sono nove, cosa sono? — I nove grossi maiali che Ignazio e i suoi figli si mangeranno! Allora il pope proruppe: — Sei Dio, non è vero? — Crepa, pope, sono proprio io!

E fu così che il pope crepò proprio lì fuori e Ignazio si tenne i maiali e se li mangiò a Natale insieme ai suoi figli. E la storia è bella e finita!» (Florica Ardelean, 65 anni, Bichi?, registrato nel 1968, mgt. 151 dell’Archivio del Folclore dell’Università dell’Ovest di Timi?oara). Questo racconto esordisce sotto il segno di una eccezionalità tale da destare meraviglia.

Il personaggio su cui fa perno la parte iniziale della storia, chiamato Ignazio, è descritto come un “uomo povero”, il che, da un certo punto di vista, concorda con le norme di base di una narrazione di tipo fiabesco. Ma il racconto non si limita solo a citare la parola povertà, bensì la evoca facendo ricorso a un’ampia spiegazione.

“Si era alle porte del Natale e tutti macellavano un maiale. Ma loro erano poveri, non possedevano maiali, non possedevano nulla” delinea, per l’appunto, l’abisso quasi invalicabile che si era venuto a creare fra il personaggio e la sua famiglia, da una parte, e tutti gli altri abitanti del villaggio, dall’altra.

La povertà di Ignazio non è, in altre parole, mera retorica — considerando che nei racconti tradizionali, spesso i personaggi che intraprendono un lungo viaggio, e che sono il fulcro della storia, sono per l’appunto poveri —.

Si tratta qui di una povertà estrema che fa di Ignazio non solo un personaggio emarginato per via della sua povertà strettamente materiale, ma addirittura lo converte in un uomo che sta per essere escluso dalla sua stessa comunità giacché non è in grado di adempiere i suoi riti, fra cui uno dei più importanti è quello della macellazione del maiale per il Natale.

Rispettando gli schemi narrativi della fiaba, Ignazio intraprende un viaggio per andare a caccia nel bosco e potersi così procacciarsi un animale per sostituire il tanto necessario maiale natalizio. Il suo viaggio ha, senza dubbio, un valore iniziatico, alla stregua di qualsiasi viaggio effettuato all’interno di uno spazio ignoto e ostile.

Solo che, da qualsiasi punto di vista si guardi, la caccia di Ignazio è alquanto atipica. In primo luogo, perché non ci si può procacciare un maiale per il rito del Natale in una battuta di caccia! Il possesso di un animale da sacrificare per Natale, e che possa offrire sostentamento per tutti i membri della famiglia durante tutto l’inverno, non è, secondo la mentalità tradizionale romena, il risultato di un gesto eroico, come può esserlo la caccia, e nemmeno può scaturire da un’ardua impresa da superare. Il maiale deve essere comprato all’inizio della primavera, facendo ricorso ai risparmi accumulati durante tutto l’anno.

L’acquisto al mercato di questo maiale, all’inizio dell’anno, è una vera e propria tradizione, tant’è che, in determinate regioni, assume caratteristiche quasi rituali. In alcuni villaggi, vi è la tradizione di mettere insieme ai soldi che si useranno per pagare il maiale una moneta che era stata inserita in una focaccia preparata ad hoc per il Capodanno.

È una moneta, quindi, che assurge a ruolo di “moneta simbolica”, “un’autentica moneta” volta ad assicurare l’eterna prosperità nella casa. Da un altro punto di vista, la caccia di Ignazio è atipica per via dello stesso personaggio agente.

Infatti, la tradizione vuole che durante le feste natalizie la caccia sia puro appannaggio dei giovani scapoli. Questo anche è un tema ricorrente delle colinde, i canti rituali natalizi. Riprendendo il filo narrativo del Racconto di Ignazio, ci soffermeremo adesso su un frammento significativo, cioè quello dell’apparizione del falso prete che offre al nostro personaggio “nove maiali belli grassi” in cambio di qualcosa di non ben definito che Ignazio “ignora di avere in casa”.

Comparando questo evento narrativo con lo schema di V.I. Propp, noteremo che il personaggio del pope corrisponde alla “funzione del donatore. (Propp, 1928, ed.1970, 43 e seg.), solo che nel nostro racconto questo personaggio presenta delle discordanze rispetto alle caratteristiche e funzioni che possiede nella fiaba tradizionale.

Gli avvenimenti si svolgono ai tempi in cui “Dio e San Pietro passeggiavano per il mondo”. È una maniera per dire che il tutto ha luogo in un’epoca remota, un’epoca antecedente a tutte le leggi. È il tempo di un’umanità innocente, ma non sempre in senso positivo.

Giacché non era stata ancora imposta ad essa alcuna legge, quest’umanità poteva essere malvagia, sciocca o irriverente nella sua innocenza. E persino Ignazio non sfugge a questa norma. Il racconto è spietato nei suoi confronti e ce lo presenta in una luce per nulla favorevole: il nostro eroe quasi non mette, di nuovo, il piede in fallo quando per poco non si nega ad ospitare i santi forestieri, perdendo così la possibilità di fare quello che è debito in una data circostanza.

Alla fine, dopo lunghe insistenze, Ignazio accoglie in casa sua “Dio e San Pietro”. È una decisione necessaria, la sua, giacché, su un piano strettamente narrativo, l’apparizione di questi due personaggi ha la valenza di un deus ex machina. Solo loro, con i loro miracolosi poteri, possono rimediare agli innumerevoli e ripetuti errori commessi da Ignazio fino a quel momento.

Inoltre, solo loro, grazie al potere del loro verbo, possono riscrivere la serie di falli commessi da Ignazio, convertendoli in una storia esemplare, sull’inizio di specifiche usanze. Per esempio, sull’inizio del consumo della carne del maiale, macellato a mo’ di rito in un ben determinato giorno precedente il Natale consacrato a Sant’Ignazio.

Inoltre, il gioco di botta e risposta degli indovinelli, che vede coinvolti Dio e il Diavolo, ha una doppia serie di effetti. Sul piano strettamente narrativo, hanno luogo una serie di capovolgimenti volti a rimediare gli squilibri che si erano prodotti fino a quel momento: i maiali recuperano così il valore di doni ottenuti per merito, e il figlio neonato di Ignazio viene “salvato” dalle grinfie dell’Immondo.

Dal canto suo, Ignazio diventa, in virtù di tutte le sue tribolazioni, una specie di personaggio emblematico, le cui gesta verranno commemorate ogni anno con il rito della macellazione del maiale sotto Natale, quantomeno per il loro carattere innaturale che solo la grazia divina ha potuto emendare.

Sotto questo punto di vista, risulta palese che “la gara di indovinelli” fra Dio e il Diavolo, nonostante l’apparente aspetto ludico, ha come effetto la scrittura delle leggi cosmiche. La creazione delle leggi del mondo, scaturita dal gioco di domande e risposte di questi due personaggi e che rappresentano sia il principio positivo e benefico sia quello negativo e malefico, riscrive, in un registro meno serio, il principale mito cosmogonico romeno.

In base ad esso, la creazione del mondo non è altro che il risultato delle azioni combinate di due personaggi denominati ora Dio e Il Diavolo, ora “Fartate” e “Nefartate”. Ecco, di seguito, una versione di questo mito: “Prima della creazione del mondo, non esisteva che un’illimitata distesa d’acqua, sulla quale passeggiavano Dio e Satana.

Quando Dio decise di creare la Terra, mandò Satana in fondo al mare perché prendesse, a suo nome, del seme di Terra e glielo portasse alla superficie. Per due volte, Satana si immerse in fondo al mare ma, invece di prendere il seme di Terra in nome di Dio, secondo l’ordine ricevuto, lo prese a proprio nome.

Mentre saliva alla superficie, tutto il seme di Terra gli scivolò fra le dita. In una terza discesa in fondo alle Acque, prese il seme a suo nome e a nome di Dio. Al suo ritorno in superficie, un po’ di fango e cioè quanto ne aveva preso nel nome di Dio gli rimase sotto le unghie, tutto il resto gli scivolò fra le dita.

Con il fango rimasto sotto le unghie del Diavolo, Dio fece un piccolo monte di terra, sul quale si distese per riposare. Satana, credendo che Dio si fosse addormentato, decise di farlo cadere nell’acqua e di farlo annegare, per restare il solo padrone della Terra.

Ma, a mano a mano che il Diavolo spingeva Dio, la Terra si allargava e si estendeva sotto di lui. E la Terra si estese tanto che non vi fu più posto per l’acqua.” (M. Eliade, Spezzare il tetto della casa, trad. Roberto Scagno, Jaca Book, Milano, 1988, pag. 83).

Nonostante questi aspetti, il maiale rimane un simbolo della gastronomia tipica romena. Come ben nota uno degli studiosi della gastronomia tradizionale romena, il maiale è “un animale romeno per definizione, giacché siamo un paese in cui fa freddo, un paese con quattro stagioni, dove l’eccesso è dappertutto”.

A differenza di tutti gli altri animali domestici, i cui prodotti derivati rappresentavano un’importate risorsa dell’economia domestica contadina, il maiale è “un’animale monouso”, un animale “allevato per essere macellato” (Roman, 2000, 81) e niente più.

Unilateralmente, il maiale acquisisce così una specie di supremazia nella gerarchia delle specialità gastronomiche nazionali, una supremazia rafforzata da una sfilza di proverbi e brevi leggende che descrivono la sua carne come una delikatessen senza pari.

“Un pollo non è il maiale”, recita il detto. Ed è ben nota l’opinione delle popolazioni delle pianure occidentali, secondo la quale “i signori, quando mangiano il porco, si leccano le dita, mentre quando mangiano pesce non fanno altro che sputare a terra”.