La canapa, descrizione della lavorazione

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Fino ai primi anni Settanta del secolo scorso, i prati di Roccaberardi (Rieti), in estate, erano una immensa piantagione di canapa tessile. Quando da bambino attraversavo quei campi, fantasticavo immaginando di percorrere foreste tropicali per quanto mi sembravano alti gli steli. Al momento della raccolta, invece, mi sembravano giganti i contadini che a colpi di falce atterravano la canapa; le donne la confezionavano in fascine da caricare sui basti dei muli per il trasporto ai pozzi. Le fascine di canapa per alcuni giorni restavano immerse nell’acqua dei pozzi a macerare. Avveniva quindi che, in pochissimi giorni, quella rigogliosa foresta era ridotta ad un’arida steppa. Al momento opportuno la canapa, ormai pronta, veniva tolta dal pozzo e sparsa ad asciugare al sole; una volta asciutta si procedeva alla sfibratura per ricavarne il «garzuolo» (mallone, in dialetto rietino) da filare. In quel periodo, durante questa fase di lavorazione era un momento di gran chiasso perché, ad ogni angolo del paese, c’era una gramola – macinnola – appoggiata al muro, tramite la quale le donne procedevano alla sfibratura delle cannucce di canapa. La gramola è uno strumento antico quanto l’aratro a chiodo; consiste in un tronco d’albero di circa un metro per 20 cm di diametro. Viene spaccato longitudinalmente a zig zag per ricavarne due valve, una a due e l’altra a tre denti, incernierate alla base, in modo che si potessero aprire e chiudere incastrandosi ricomponendo il tronco.

Il funzionamento è molto semplice: con una mano si apre e chiude la gramola, mentre con l’altra si fa scivolare tra i denti un mannello – mazzittu – di canapa, in modo da sfibrarla e separane la parte legnosa così da ricavarne «garzuoli» o pennacchi pronti per le successive procedure.

Il crepitio delle gramole in azione, diffondevano un tac, tac, tac continuo; sembrava che in paese ci fosse un concerto di nacchere che durava diversi giorni. Nella fase successiva, si doveva ricavare il filo. Anche questa operazione era affidata alle donne, così come le altre procedure successive. Le signore, la conocchia con la rocca (un bastone spaccato alla sommità in cinque o sei steli longitudinali i quali intrecciati tra di loro, formavano un cestino adatto a contenere il pennacchio di canapa), la portavano dovunque andassero. Le donne ricavavano il filo partendo da un batuffolo di canapa, ne sfilacciavano una piccola quantità che agganciavano al gancetto metallico, posizionato sulla punta superiore del fuso – pinnola o pennola – da cui pendeva; il filo che si andava formando, tramite il colpo secco per rotazione assestato al fuso. A questo veniva imposta una forte velocità mantenuta costante dal volano – vertecchia – che era alla base del fuso, trasformando così il piccolo batuffolo in un lungo filo. In sostanza, il procedimento era lo stesso che si usava per filare la lana. Il filo così ottenuto, più o meno spesso secondo le necessità, in un primo momento si raccoglieva attorno al fuso, poi veniva avvolto in matasse –gammotte – che a loro volta opportunamente inserite nel telaio davano la possibilità di essere tessute. Da questa operazione si ricavavano rotoli di tela che facevano parte del corredo delle giovani spose.

La tela più fine era destinata a realizzare asciugamani, lenzuoli, camicie. La tela più grezza era destinata ai sacchi, ai canovacci – sparre – e a grossi teli – spanneturi – che servivano per «infagottare» cose da trasportare, fieno, foglie secche, brattee e torsoli delle pannocchie oppure per spandere, da cui il nome, derrate per essere seccate al sole: noci, legumi, cereali.

In conclusione, è opportuna una semplice ri-flessione; se oggi ci fosse un nostalgico che volesse seminare la canapa, rischierebbe di ritrovarsi a fare i conti con i Carabinieri. Poi vai a spiegare che non si tratta di “erba”.