Maschere e mascheramenti in Sardegna

img

Le maschere sarde, misteriose e fortemente caratteristiche.

In Sardegna, si hanno due tipologie di carnevali con le relative maschere; ci sono quelle a sembianze antropomorfe e quelle a fisionomia zoomorfe; queste ultime caratterizzano le culture agropastorali dove è prevalente l’economia dell’allevamento.

Caratterizzano il patrimonio culturale delle comunità delle zone della Sardegna centrale, un’area soprattutto montuosa e con vocazione ambientale per la pastorizia e con codici sociali tipici delle società agro-pastorali.

In tutti i casi, però, in Sardegna, tra le maschere delle varie zone è possibile ritrovare alcune costanti strutturali e funzionali che rimandano sovente a realtà socio-culturali che le hanno conservate e tramandate.

Queste costanti, in generale, sono l’impiego di pelli con il vello e di maschere facciali antropo-zoomorfe; inoltre, l’impiego di sonagli e l’incedere a corteo, secondo forme rituali che potrebbero far ipotizzare residui di culti agrari propiziatori.

A tali costanti si connettono le consuete orge alimentari di cibi grassi e di frittelle uniti con abbondanza di vino. La maschera barbaricina più conosciuta è senza dubbio quella di Mamoiada; ma il mondo delle maschere, in Sardegna, è molto variegato e tante altre contribuiscono a rendere magico il carnevale.

I Mamuthones sebbene rientrino fra quelle zoomorfe per il suo vestiario di pelli di pecora e campanacci che rimandano alle greggi, meno lo sono per i segni della maschera facciale. Il mascheramento è composto dalla mastruca, una pelle di pecora di colore nero; questo colore del vello ci riporta alle consuetudini pastorali; infatti anticamente, in quasi tutti le greggi, era buona norma avere alcune pecore nere, che per il loro colore quasi primeggiavano sulle altre; ma, in pratica, la realtà era ben diversa.

La pelle con il vello nero era usata sia dai pastori, perché più facile da mimetizzarsi nelle campagne, sia perché la lana nera è più facile da conservarsi come pulita e, quindi, mimetizzare la sporcizia. La maschera dei Mamuthones è realizzata in legno di pero selvatico; è tinta in nero.

Ha i lineamenti molto forti che riproducono, come stereotipo, un viso con una smorfia sofferente quasi a voler nascondere la fisionomia e lasciare nel dubbio un “uomo o una bestia”; infatti, il problema che pone è il seguente: «Chi si nasconde dietro la maschera?».

Le ipotesi interpretative sulla simbologia di questa maschera sono diverse. Raffaello Marchi vede un corteo di dodici Mamuthones, che camminano in fila per due, al ritmo scandito dei loro salti provocando così il suono di numerosi campanacci portati sulle spalle sotto l’occhio vigile degli Isohadores, pronti a lanciare lacci verso le prede o schiavi, i Mamuthones (Marchi, 1951).

Maria Margherita Satta, secondo un ottica maxiana, considera il corteo dei mamuthones e isohadores come maschere con cui i pastori ironizzano di se stessi e della loro realtà, «fatta di lavoro e di solitudine tanto da assimilare la loro vita a quella delle greggi che governano» (Satta, 1982, pp. 77-85).

A Mamoiada, i Mamuthones fanno la loro uscita nel paese per la festa di San Antonio, 16-17 gennaio; come è consuetudine gli uomini si incontrano nel pomeriggio in una casa prestabilita; dopo la vestizione, alla quale assistono soltanto uomini, le maschere escono per strada.

Hanno in dosso sulle spalle i campanacci che danno con lo scampanellio l’armonia di un gregge che si sposta in transumanza. Il gruppo mascherato si riunisce composto da 12 Mamuthones e da 6 Isohadores.

Come si è già accennato, calzano grossi scarponi ai quali sono uniti gambali di pelle nera; indossano pantaloni e giacca di velluto anch’esso nero che caratterizza l’abbigliamento dei pastori. Sopra questi abiti si aggiunge il mascheramento con la mastrucca di vello nero.

Su questa e sulle spalle poggiano circa 30 kg di campanacci, tenuti fra loro da robusti lacci di pelle. Sul viso, come si è già accennato, la maschera lignea e sul capo un fazzoletto femminile da lutto al di sopra del quale viene calzato un berretto a visiera anch’esso scuro.

Così vestiti i Mamuthones sono pronti per il loro incedere rituale percorrendo le vie del paese; sostano nella piazza principale attorno al fuoco mentre la gente si diverse in un ampio ballo tondo. Un genere simile di maschere zoomorfe con interpretazioni simili le si trova nelle maschere di Ottana e Orotelli, che ripropongono il mondo agro-pastorale di queste comunità (Della Maria, 1959, pp. 7-8; Satta, 1982, pp. 85-88).

La maschera di Ottana nelle sue sembianze evidenzia molto bene il mondo dei bovari di un territorio caratterizzato da sempre dall’allevamento bovino; infatti la maschera dei Boes riproduce una protome taurina, talvolta con tante incisioni.

Spesso è riprodotta una stella sulla fronte da cui partono due lunghe corna. La maschera dei boes non è mai sola. La maschera dei Merdules la ritroviamo a gruppi, quasi a rappresentare una mandria guidata dai padroni.

Ha una fisionomia antropomorfa realizzata da una maschera scura e deforme, come se volesse esprimere sofferenza oppure ghigni ironici. Insieme a queste maschere troviamo Sa Filonzana; è realizzata con abiti femminili e con gambali.

Riproduce nella maschera nera un volto di una vecchia senza denti, con un andare lento e dolorante che si aiuta con un bastone. Ha in mano la canocchia e le forbici; spesso mima il taglio del filo di lana, così come avveniva nella figura mitica delle parche che interrompevano con il taglio del filo filato la vita chi coloro che incontravano.

Per la Filonzana la simbologia è simile; per chi non le offre da bere c’è il taglio della lana che sta filando. Il gruppo di queste maschere corre per le vie di Ottana e spesso mette in scena varie pantomime tra le quali quella della castrazione dei tori.

Nel complesso, l’apparato rituale carnevalesco probabilmente rimanda ad antiche pratiche propiziatorie del mondo pastorale, nelle quali quelle della fertilità e della fecondazione erano particolarmente importanti perché ci fossero buoni raccolti e le mandrie avessero verdi pascoli.

Anche nelle maschere di Orotelli ritroviamo ancora la simbologia della fecondazione della terra. Le maschere de Sos Thurpos compiono un rituale che riporta ai culti agrari con l’aratura dei campi e la semina; infatti, i due mascherati con un lungo capotto con cappuccio di orbace nera, con il volto tinto di fuliggine, rappresentano un giogo di buoi che tirano un aratro, mimano l’aratura e con essi il contadino che semina lungo il solco.

Le informazioni maggiori sulla la maschera di Orotelli le ritroviamo grazie al lavoro di recupero sul campo iniziato, intorno agli anno ‘70 del secolo scorso, sulle tradizioni carnevalesche da Raffaello Marchi (Marchi, 1979; Satta, 1982, pp. 89-93) che ha sempre dimostrato particolari interessi per la realtà etnografica barbaricina.

A partire dagli anni ’90 del Novecento fino ad oggi, in Sardegna, si è verificato un rifiorire di rituali carnevaleschi con maschere zoomorfe riproducesti sembianze ovine, caprine, bovine, suine. Il fenomeno è indotto da un lavoro pubblicato da Dolores Turchi sulla derivazione delle maschere tradizionali sarde da presunti antichi rituali dionisiaci.

Nascono così due maschere tra loro similari, Sos Coriolos di Neoneli e i Mamutzones di Samugheo. Quest’ultima ripropone un rituale similare a quello dei Mamuthones di Mamoiada, ma si presenta con un corpo e un gran copricapo ricoperti da pelli di capra. Il copricapo ha due lunghe corna caprine e nasconde quasi tutta la testa di chi lo indossa; lascia intravedere solo un viso dipinto con fuliggine per ottenere il mascheramento.

Tra i Mamutzones, guidati da un capo, domina la scena un grande caprone. Anche queste maschere, come quelle di Mamoiada e di Ottana, portano appesi alla spalle un grappolo di campanacci che suonano in seguito ai saltelli cadenzati dichi li indossa.

Fin qui si è sintetizzato come il carnevale, in Sardegna, sia fortemente connesso con la realtà pastorale e abbia il rapporto privilegiato che i Sardi da sempre realizzano con il mondo animale; in tale dimensione si ritrova anche il grande amore sempre dei Sardi per il cavallo; da questo connubio, infatti, nascono le giostre equestri e le gare di abilità delle pariglie a cavallo compiute a Carnevale.

A Santu Lussurgiu sa carrea e nanti è una corsa a pariglia con due o tre cavalli, sui quali i cavalieri compiono spericolate acrobazie mentre al galoppo sfrenato scendono lungo una strada del paese lasciata appositamente sterrata.

Nella Sartiglia di Oristano un capo corsa, detto componidori, con il volto coperto da una maschera androgina, sul capo un cilindro e dal quale pende sulle spalle un velo di pizzo, mentre corre a cavallo al galoppo, deve cercare di infilzare, prima con la sciabola e poi con lo stocco, una stella con al centro un foro e appesa ad una fune di traverso nel percorso di gara.

Si tratta di una gara equestre compiuta da più cavalieri nella quale vince chi riesce ad infilzare più volte la stella nelle tre discese prestabilite per ogni concorrente. Gli esiti delle gara, nel passato, erano di presagio per d’andamento favorevole della prossima annata.

L’organizzazione della manifestazione è realizzata, per la domenica di Carnevale dal gremio (corporazione) degli contadini, mentre per il martedì da quello degli artigiani, nel quale sono compresi tutti i comparti.

L’investitura dei rispettivi capi corsa avviene il giorno della Candelora, il 2 di febbraio, con l’incarico dato dai rispettivi priori dei gremi; dal quel momento in poi i capi corsa prescelti preparano la propria squadra, composta da due collaboratori e da altri cavalieri.

Nell’attuale economia del turismo, in cui è ampiamente coinvolta la Sardegna con positivi risultati in varie zone, così come si verifica per i beni culturali del territorio, quelli archeologici e quelli storico-artistici, anche i beni culturali etnografici, gradi sagre e feste tradizionali, come i carnevali ed altri eventi folklorici, costituiscono motivi di attrazione e di interesse per le correnti turistiche che sono richiamate, soprattutto in periodo estivo, dalla realtà ambientale e abbastanza incontaminata delle coste.

In periodo invernale, negli ultimi decenni, i carnevali della Sardegna, dal canto loro, sono diventati motivo di attrazione soprattutto per correnti turistiche interne all’isola; sarebbe auspicabile suscitare interessi per i carnevali sardi anche all’esterno per estendere il periodo turistico anche durante la stagione invernale; questo esito non dovrebbe scandalizzare, in quanto i beni culturali etnografici sono prodotti fruibili tanto quanto quelli archeologici e storico-artistici.