Per la promozione dei musei etnografici e delle tradizioni popolari in Italia

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Il 20 gennaio 2008 il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, con il sostegno di SIMBDEA (Società italiana per la museografia e i beni demoetnoantropologici), promosse la manifestazione nazionale “Porte aperte alle tradizioni italiane”. Per l’occasione musei, collezioni e archivi organizzarono in tutta Italia diverse attività (visite guidate, performance, proiezioni, laboratori didattici, seminari, mostre) riscontrando il significativo apprezzamento del pubblico. 

L’eccezionale adesione di oltre 370 realtà a un evento che per la prima volta presentava un rilievo istituzionale e aveva un profilo nazionale, fu un fatto veramente straordinario e testimoniò dell’attenzione diffusa per le culture locali e della vitalità di questo mondo dei musei (la rivista Antropologia Museale ne diede conto nel n. 18). 

L’iniziativa, culminata con la manifestazione “Ieri, oggi, domani. L’Italia delle tradizioni”, tenutasi al Vittoriano l’1, 2 e 3 febbraio 2008, si inseriva in un percorso culturale più ampio, avviato con la creazione, da parte dell’allora Ministro Francesco Rutelli, di un “Comitato scientifico per la valorizzazione delle tradizioni” e con la legge di ratifica da parte del Parlamento Italiano (settembre 2007) della Convenzione UNESCO 2003 per la salvaguardia del Patrimonio culturale immateriale. 

L’evento promosso dal MiBAC mise in risalto un dato che qualche anno dopo il rilevamento Istat pubblicato nel 2013 (I musei, le aree archeologiche e i monumenti in Italia), avrebbe fotografato in tutta la sua eccezionale evidenza: su un totale di 3.847 musei censiti la tipologia prevalente era quella etnografica e antropologica (16,9%).

Inoltre, sollevò un’interessante riflessione su cosa si debba intendere per cultura locale, su cosa siano la località e il localismo, sulla produzione di località e sugli elementi di potere impliciti in tale processo. 

La tradizionale nozione di località, rigida e immobile, fu radicalmente messa in discussione in quanto superata dalle dinamiche della contemporaneità e della globalizzazione. In un’intervista rilasciata sull’argomento e pubblicata sul n. 17 di “Antropologia Museale”, Paolo Apolito per esempio osservava: “i Gigli di Nola si stanno muovendo nel mondo da anni, i Gigli di Nola viaggiano. La località per i nolani cresce di valore se si proietta all’esterno di sé. Nola acquista un senso forte di appartenenza alla tradizione, alla storia, alla “nolanità” del Giglio se riesce a proporsi sulla scena globale. Questo è un dato del quale occorre tener conto. E come per Nola così per centinaia di esperienze del genere”. 

Il folklore, oltre il quale già invitava ad andare una pubblicazione di qualche anno precedente (P. Clemente e F. Mugnaini, a cura di, Oltre il folklore, Roma, Carocci, 2003), usciva da quell’esperienza in qualche modo rigenerato: non più un oggetto da relegare dentro mondi appartati, scevro da contaminazioni col mondo, con la società dei consumi e con la società di massa, ma una realtà per molti versi meticcia, sostenuta da sempre nuovi attori sociali, una creazione sociale del tutto contemporanea. 

Il rafforzamento nel MiBAC, a livello centrale, dell’attenzione nei confronti del patrimonio culturale demoetnoantropologico e immateriale, testimoniato dall’assetto istituzionale determinato dalla riforma Franceschini del 2014, ha successivamente incoraggiato le nuove soprintendenze uniche, ormai articolate in aree funzionali dedicate anche al patrimonio demoetnoantropologico, a guardare con interesse e competenza anche la categoria di beni culturali materiali e immateriali del settore demoetnoantropologico. L’Istituto centrale per la demoetnoantropologia, creato nel 2007 per svolgere una funzione di coordinamento e indirizzo delle politiche del settore etnografico, e inglobato dalla citata riforma nel Servizio VI della nuova Direzione generale archeologia, belle arti e paesaggio, avrebbe potuto avviare e indirizzare con la necessaria competenza la “tutela del patrimonio demoetnoantropologico e immateriale” italiano. 

Il DPCM emanato di recente su iniziativa del ministro Alberto Bonisoli, per riordinare l’Amministrazione dei beni culturali, pur riconducendo ad un unico servizio riferito ai beni storici-artistici e insieme demoetnoantropologici le competenze della più sopra citata struttura, tuttavia ha rafforzato la tutela integrata del patrimonio culturale nazionale. Laddove il Codice dei beni culturali e del paesaggio (art. 10 comma 3 del D.Lgs 42/2004) raccomanda di vigilare sui valori e sugli elementi identitari, di memoria collettiva e di testimonianza storica che i beni materiali mobili e immobili rivestono per determinati gruppi sociali e contesti culturali, oppure sottolinea la necessità di tenere in considerazione le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il saper-fare connessi ai beni materiali di interesse culturale (art. 7 bis), è evidente che le competenze tecnico-scientifiche proprie del settore demoetnoantropologico - ove rafforzato, come si auspica, negli organici del MiBAC - saranno determinanti nel fornire gli strumenti più adeguati ai fini dell’individuazione dei suddetti valori e elementi identitari e storico-relazionali collettivi. 

I musei demoetnoantropologi, dal canto loro, forti della tradizione e articolazione territoriale che li contraddistingue (V. Lattanzi-V. Padiglione-M. D’Aureli, Dieci, cento, mille musei delle culture locali, in L’Italia e le sue regioni, Istituto della Enciclopedia Italiana, 3° vol., pp. 153-73, Roma, 2015) avranno il compito di posizionarsi in questo nuovo quadro della tutela, avviando un dialogo il più possibile proficuo con le Soprintendenze e dimostrando di rappresentare quel presidio terrioriale della salvaguardia che i principi museologici moderni assegnano al museo in quanto istituzione culturale.

Nel sistema museale nazionale inaugurato con il DM 113 del 28 febbraio 2018, oltre alle potenzialità espresse da questa realtà museale locale, un fatto tutt’altro che scontato è rappresentato dall’esistenza del Museo delle Civiltà, frutto dell’accorpamento del Museo dell’Alto Medioevo, del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, del Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini” e del Museo Nazionale di Arte Orientale “Giuseppe Tucci”: un grande istituto dotato di autonomia speciale, situato nel quartiere romano dell’EUR, cui è lecito guardare come a un avamposto della missione culturale propria dei musei di società nel XXI secolo. 

Oggi, in definitiva, possiamo ben riconoscere che la diffusione nel territorio dei musei di interesse demoetnoantropologivo segnala il loro carattere strategico ai fini dello sviluppo locale. I musei etnografici dimostrano di vivere nel rapporto con il territorio e di dialogare con il presente senza perdere di vista il loro rapporto con il passato. Come osservava Pietro Clemente nella sua relazione introduttiva al Congresso Simbdea “Essere contemporanei” tenutosi a Matera nel 2010, essi “trasmettono il sapere dei nonni ai nipoti, ma anche l’immaginazione di modi diversi della vita come risorsa applicabile in un futuro in cui di nuovo abbia senso il sapere delle mani, la competenza artigiana, il valore dei sapori, la varietà delle forme del canto, della metrica, della musica” (…); “non servono a conservare il passato, ma a conservare il futuro, perché sono i portatori della ricchezza delle differenze, delle abilità, delle competenze di un mondo che- alluvionato e disperso dal mito della modernità e del consumismo – riaffiora oggi come poderosa risorsa di capacità umane legate all’ambiente, risorsa strategica del futuro, chiave di sviluppo sostenibile, di turismo non invasivo e ricco di varietà. In questo siamo in sintonia con il mondo dei parchi e delle aree protette, della biodiversità, del pluralismo gastronomico e agroalimentare”. 

Sebbene si tratti per lo più di risorse spesso poco utilizzate, tali musei si prestano a fungere da ‘antenne’ diffuse sul territorio, consapevoli e attive delle politiche di salvaguardia e di valorizzazione, soprattutto per la loro capacità di mantenere, pur nelle ristrettezze economiche e gestionali in cui versano le regioni e gli enti locali da cui prevalentemente essi dipendono, quel rapporto con le comunità e quell’attenzione a programmi e attività sostenibili che hanno una non trascurabile convergenza con i contenuti della Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società (Faro 2005), di cui si auspica la ratifica da parte dell’Italia. 

Oggi il pubblico vuole partecipare alla vita del museo, all’elaborazione della cultura e alla definizione stessa dei contenuti (proprio in questa direzione vanno le raccomandazioni contenute nella citata Convenzione, dove le “comunità di eredità” sono il tessuto connettivo delle relazioni reticolari della società contemporanea e i musei operano quali istituzioni culturali tra le altre).

I musei etnografici hanno nessi importanti con la società produttiva, in particolare con le imprese familiari e artigianali del territorio. Pertanto devono essere dotati di direttori capaci e promuovere progetti culturali in grado di interpretare e di intercettare sentimenti e interessi sia locali sia sovralocali.

Questo ruolo del museo, del resto, orientato alla creazione di strategie di “sistema” territoriali è ormai raccomandato dalle stesse normative statali e regionali. Le raccolte dei musei etnografici sono spesso reciprocamente complementari.

Dunque le reti, soprattutto tematiche, saranno decisive per fare emergere, al di là delle singole vocazioni e rivendicazioni identitarie, le connessioni esistenti fra le raccolte e fra queste e il territorio locale. Quanto più ampio sarà il network locale tanto più efficace potrà essere l’azione di valorizzazione del patrimonio culturale, da riconoscersi unitariamente nella sua articolata diversità.