Quale (d)io a San Giovanni Rotondo?

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Quando fu dato alle stampe il breve libro In che cosa crede chi non crede nessuno si sognava di trovare risposte alle grandi domande che l’uomo si pone da tempo immemore.

Ma l’argomento intrigò e il libro fu oggetto di discussione. Era il 1995, Internet era agli albori, e leggere era pur sempre un’attività elitaria: ma le distrazioni erano diverse e argomenti importanti non erano inquinati da leoni da tastiera e sedicenti opinionisti nati su Facebook.

Quando due giganti come Carlo Maria Martini e Umberto Eco presentavano le proprie tesi sull’argomento degli argomenti era come assistere ad una resa dei conti, alla scena del duello di Per un pugno di dollari.

Gli atei parteggiavano per Eco, i cattolici per il Cardinale. Solo che questa volta non ci sarebbe stato nessun vincitore, nessun animale morente: solo tesi profonde su cui riflettere. L’incontro tenutosi a San Giovanni Rotondo, di cui ha ampiamente scritto Varriano in questo stesso numero della rivista, mi ha fatto venire in mente questo libro. Si badi, non tanto per le tesi esposte, ma per le domande che hanno attanagliato e continuano ad attanagliare il laico, come il cattolico, il cristiano, come l’ortodosso, l’agnostico, come l’ateo: chi è dio? quale religione rappresenta la verità? chi è il vero Dio (questa volta con la lettera maiuscola)? perché la religione? a che serve la religione?

Domande dirette, formulate nella loro semplicità che i relatori hanno stimolato nel pubblico, ma che raccolgono quel desiderio di credere in qualcosa/ qualcuno: prima o poi tutti fanno i conti con queste domande. C’è chi ne esce sconfitto, disilluso, chi - al contrario - s’illumina, s’avvia.

E dice bene il professor Atzori: «per rispondere a queste domande, ci sarebbe bisogno di un simposio». Ma l’occasione è ghiotta e c’è chi nel pubblico incalza. E dunque i relatori cercano di essere brevi, di rispondere a turno e ognuno seguendo i personali dettami, le proprie esperienze personali: tutte risposte giuste, tutti pezzi di un grande puzzle.

Ritorno al parallelismo con il libro.
Eco scrive:
Quando si affrontano problemi di questa portata occorre mettere le carte in tavola, a scanso di equivoci: chi pone la domanda deve chiarire da che prospettiva la pone e che cosa si aspetta dall’interlocutore. Ecco dunque il primo chiarimento: a me non è mai accaduto, di fronte a una donna che si dichiarasse incinta a causa della mia collaborazione, di consigliare l’aborto o di acconsentire alla sua volontà di abortire. Se mai fosse accaduto, avrei fatto di tutto per persuaderla a dar vita a quella creatura, qualunque fosse stato il prezzo che insieme avremmo dovuto pagare. E questo perché ritengo che la nascita di un bambino sia una cosa meravigliosa, un miracolo naturale al quale si deve acconsentire. E tuttavia non mi sentirei di imporre questa mia posizione etica (questa mia disposizione passionale, questa mia persuasione intellettuale) a chiunque.

Quanto è importante la prospettiva? Avere sempre chiaro questo aspetto quando si interagisce con qualcuno è la chiave di qualsiasi relazione: ce lo insegnano i mental coach (così trendy oggi), ce lo insegnavano i preti dell’oratorio, quando sedavano le zuffe dei ragazzi: basterebbe ricordarlo quando si parla di interreligione o ci si confronta con chi la pensa diversamente, soprattutto in materia di fede, di religione. E a proposito di religione e secolarizzazione, tesi avanzate più in là da Eco, Martini risponde:
Che cosa dire sugli argomenti che si potrebbero chiamare “teologici” e che Lei esemplifica con il riso e il sakè, che sarebbero potuti diventare materia dell’eucarestia se «per imperscrutabile disegno divino, Cristo si fosse incarnato in Giappone». Ma la teologia non è la scienza dei possibili o “di ciò che sarebbe potuto accedere se...”: essa non può che partire dai dati positivi e storici della Rivelazione e cercare di capirli. In questo senso è innegabile che Gesù Cristo ha scelto i dodici apostoli. Di qui occorre partire per determinare ogni altra forma dell’apostolato nella Chiesa. Non si tratta di cercare ragioni a priori, ma di accettare che Dio si è comunicato in un certo modo e in una certa storia e che questa storia nella sua singolarità ancora oggi ci determina.

Cosa è trapelato dall’incontro a San Giovanni Rotondo? Credo proprio ciò che scrive Martini: non bisogna cercare ragioni a priori, ma accettare che Dio si sia manifestato in un certo momento storico. Momento dal quale tutto è scaturito. Riflessione inaccettabile dall’agnostico, ma formulata al contrario risulterebbe indigesta al credente. Dunque? Come procedere? Il dialogo, un terreno comune accettato da entrambi, gli ingredienti basilari per riflettere, per crescere. E la FITP ci è riuscita, in sordina, nel racconto di una tarda mattina di novembre.