Una proposta di antropologia visuale

img

Le pagine che seguono, con la documentazione fotografica di Sanader Tihomir e l’articolo di Tobia Rinaldo sull’evento «Il Fanciullo e il Folklore – Incontro con le nuove generazioni», che si è svolto dal 20 al 22 aprile scorso a Sessa Aurunca (Caserta), hanno l’intento di proporre un semplice esempio di Antropologia Visuale con cui la cronaca e l’indagine etnografica vengono fissate e completate grazie alle fotografie realizzate durante l’azione dinamica dei fatti e dei fenomeni osservati, e, nello stesso tempo, studiati.

Prima dell’invenzione della macchina fotografica, le documentazioni e gli studi etnografici erano realizzati soltanto con descrizioni e, talvolta, anche con alcuni disegni illustrativi. Già nei primi decenni dell’Ottocento l’impiego della fotografia aveva dato la possibilità a Charles Darwin di studiare le espressioni emotive umane nel quadro delle indagini sulla fisiognomica da inserire nel contesto delle malattie mentali.

Sempre nel medesimo ambito di interessi psichiatrici, nella seconda metà dello stesso secolo, Paolo Mantegazza aveva fissato in fotografie le diverse espressioni del dolore. Le prime vere riprese etnocinematografiche, tuttavia, furono quelle di Robert Flaherty che, nel 1922, con il film «Nanook of North» aveva documentato la vita degli Esquimesi Inuk della penisola Ungava nel nord del Quebec in Canada; fu l’inizio dell’Antropologia Visuale continuata poi con le importanti riprese di Franz Boas sui Kwakiult della Columbia britannica.

Altri importanti esempi sull’Antropologia visuale sono le documentazioni di Margaret Mead e del suo compagno Gregory Bateson che nel 1936 realizzarono molte documentazioni fotografiche e cinematografiche sulla realtà socio-culturale dell’Isola di Bali.

Per le documentazioni etnofotografiche si devono ricordare i materiali realizzati da Marc Allegret durante la spedizione in Africa equatoriale nel 1925/26, insieme allo scrittore francese Andrè Gide, che scrisse l’opera Voyage au Congo. Retour du Tchad, pubblicata nel 1928; inoltre, è particolarmente interessante la documentazione fotografica realizzata nel 1931 nella missione Dakar-Djibouti (1931-1933) diretta da Marcel Griaule e nella quale era responsabile delle riprese fotografiche e cinematografiche Èric Lutten.

Nella seconda metà del secolo scorso, un innovativo stimolo metodologico viene proposto alla fotografia e filmografia etnografica da Jean Rouch (1917-2004), con l’indirizzo del «cinema verità», grazie al quale vengono documentate dal vivo numerose realtà culturali africane.

Molto vicino a questa scelta teorico-metodologica è quella di Vittorio De Seta (1923-2011), che a partire degli anni ’50 del secolo scorso ha documentato e analizzato numerosi aspetti delle culture popolari meridionali; infatti, per mettere in risalto la figura di questo cineasta, da considerare come uno dei maggiori fondatori in Italia dell’Antropologia Visuale, la F.I.T.P. ha istituito «La Rassegna Internazionale “Vittorio De Seta” di Documentari Etnografici» che si svolgerà nel prossimo autunno.

Con questa iniziativa si intende promuovere, fra i gruppi folklorici e fra i numerosi appassionati delle cosiddette «tradizioni popolari», l’interesse verso la documentazione fotografica e videografica; si tratta di un approccio abbastanza semplice nelle fasi iniziali; inoltre, il perfezionamento e il diffondersi della moderna tecnologia fototelevisiva agevola la realizzazione di documenti riprodotti con macchine fotografiche o telecamere ormai alla portata di tutti in quanto quasi completamente automatiche.

Nella maggioranza dei casi, quando gli oggetti o i fenomeni fotografati o ripresi risultano in una condizione dinamica, le immagini riprodotte devono essere immediate e spontanee; quindi, richiedono un’altrettanto immediata analisi etno-antropologica dei relativi fatti o fenomeni.

Questa capacità impone una preliminare formazione e preparazione del fotografo e dell’operatore che intendono lavorare seguendo i canoni dell’Antropologia Visuale. Attualmente, però, in quanto tutti possiedono un telefonino che è anche una macchina fotografica e una telecamera, si è in condizioni di realizzare documentazioni di Antropologia Visiva di ciò che capita intorno; a questo riguardo si rileva che è più semplice descrivere la realtà con un’immagine fotografica piuttosto che con le parole.

La fotografia è immediata e totalizzante sebbene proponga l’immagine secondo la prospettiva dell’autore e dal punto di vista da dove è stata fatta. Secondo una prospettiva diversa, per esempio, la fotografia potrebbe dare esiti interpretativi differenti.

In tutti i casi, l’intermediazione comunicativa risulta più immediata rispetto alla descrizione scritta e realizzata con le parole che, invece, non hanno dimensione spaziale, come, al contrario, hanno le riproduzioni e rappresentazioni fotografiche.

Per concludere, quindi, con tutti i limiti possibili, derivati da una scarsa conoscenza delle teorie e metodi dell’Antropologia Visuale, attualmente chiunque, utilizzando i propri mezzi foto televisivi, può prendere appunti fotografici sulle attuali culture popolari, rifunzionalizzate in occasione degli eventi organizzati dalla F.I.T.P. oppure realizzati nell’arco dell’anno per di feste ed avvenimenti locali.

Da qui il suggerimento a tutti gli affiliati alla F.I.T.P. perché documemtino, con fotografie e riprese televisive, la propria realtà socio-culturale e quanto essi propongono nel campo delle «tradizioni popolari» durante le rappresentazioni sceniche.