Le rappresentazioni dei luoghi descritti come paradisi naturali e per questo «genuini», come è evidente, nel mercato i cui i messaggi pubblicitari sono stimoli fondamentali, si riflettono nell’aumento della domanda turistica per quei luoghi che offrono vacanze naturalistiche connesse a nozioni di genuinità, di autenticità e di tradizione alimentare. Un aspetto determinate di tali nozioni è riposto nei prodotti enogastronomici. A tale proposito si può rilevare, per esempio, come la qualità di questo patrimonio alimentare, di fatto, venga dotato di determinate peculiarità naturali, tipiche per compiacere le esigenze del turista, sempre orientato alla ricerca verso le specialità e le particolarità culinarie del mondo agropastorale contrapposte all’hamburger offerto dai vari ristoranti alla moda e dalle catene degli alberghi con molte stelle.
Durante le vacanze spesso si tende a recuperare il gastronomico antico, il diverso rispetto al consueto quotidiano dei “pub” e delle mense aziendali.
Pertanto, nei ristoranti dei villaggi turistici, non mancano il pane casareccio, spesso biscottato secondo la tradizione alimentare contadina; piuttosto che spaghetti vengono offerti gnocchetti in quanto pasta più tradizionale. Questi propongono, nella loro forma semplice, offerte alimentari etniche in quanto conservano specificità particolari assorbendo meglio sapori e aromi delle salse impiegate per il condimento.
Come conseguenza di tali accorgimenti culinari si amplia l’orizzonte delle escursioni per approfondire e conoscere altre realtà culinarie e ambientali della regione visitata. In sostanza, in questo modo si attiva il turismo enogastronomico come importante motore per promuovere quello ambientale e storico-culturale comunque entrambi secondari rispetto a quello alimentare.
Le cucine locali intese soprattutto come valorizzazione economica provocano la mobilitazione di diversi gruppi sociali, di reti di interessi che si impegnano a salvaguardare l’identità locale e regionale, attualmente minacciata dall’internazionalizzazione degli scambi e dei consumi di massa. Diversi movimenti politici attualmente cercano di organizzare feste e manifestazioni in cui le specialità culinarie si alternano a rituali sfilate in costume, a canti e a danze tradizionali che comunque costituiscono attrazioni turistiche, ma che, di fatto, sono forme e mezzi di riappropriazione delle tradizioni, del recupero culturale e politico concretamente espresso dalle diverse culture di ogni comunità.
Mosse dal desiderio di animare la loro regione e vivificare il tessuto economico locale spesso sono le forze politiche locali e gli stessi operatori turistici, sostenuti da mezzi di comunicazione di massa regionali, a mobilitarsi per garantire e promuovere il mantenimento delle tradizioni locali tra le quali per prime quelle alimentari.
In questo modo viene recuperata la memoria culinaria delle famiglie e dei saperi rivendicando così l’autenticità dei cibi, la cui storia, tuttavia, resta ancora da definire per stabilirne l’esatta fenomenologia.
Attualmente, infatti, i cibi tradizionali sono quelli definiti portatori di identità. Sono quelli che attraverso i tempi della storia sono diventati protagonisti di un forte legame con le popolazioni, con i luoghi e i differenti territori che li hanno espressi. Grazie a questi motivi le diversità delle cucine locali sono diventate una grande ricchezza. Queste identità e diversità, riplasmate costantemente e valorizzate in un’ottica di originalità, oggi provocano le attenzioni e gli interessi per i diversi e particolari piatti regionali che partono dalla sfera domestica per arrivare alla grande ristorazione. Per esempio, i salumi e i prosciutti casarecci, come la pasta palermitana con le sarde o il cous-cous trapanese sono alcuni degli esempi noti di costruzione di specificità locali; sebbene deterritorializzati dai loro luoghi storici di nascita essi riescono a veicolare identità nei più famosi ristoranti internazionali.
Questo fenomeno comincia alla fine degli anni ‘60 del secolo scorso quando, come contropartita alla crescita inarrestabile di un progresso senza freni, emerge ciò che Edgar Morin definirà la «mentalità neoarcaica». È un processo che opera attraverso un duplice ritorno ai valori della natura, esaltata in opposizione al mondo artificiale le città e dell’arkhè, rifiutata la modernità come routine e arretratezza; si verifica un rovesciamento parziale delle gerarchie gastronomiche a favore di piatti rustici e naturali. Sulla tavola della società postmoderna compaiono gli stufati, il pane di campagna, il burro non confezionato, le grigliate al fuoco di legna, la ricerca di vino, olio, salumi, prodotti in fattorie definite genuine, in contrapposizione ai prodotti industriali. Tutto ciò rivela la nuova valorizzazione di una semplicità agreste e di una qualità naturale che cessano di essere disprezzate in rapporto all’arte raffinata e complessa dell’alta gastronomia. Alla vecchia contrapposizione alta gastronomia/cibi rustici, subentra una nuova opposizione da rifiutare: alta gastronomia/cibo industrializzato.
Nell’epoca del multiculturalismo, capire il linguaggio del cibo costituisce oggi uno strumento sempre più essenziale per individuare e stabilire l’interazione fra le diverse comunità e culture. Lo scambio di pietanze e conoscenze culinarie è uno dei percorsi ideologici e simbolici attraverso cui gli uomini possono affermare la loro riconoscibilità e, nello stesso tempo, la legittimità delle loro differenze. Se attualmente la globalizzazione annulla alcune differenze, però, costituisce il motore di un processo di diversificazione-integrazione, che implica nuove differenziazioni risultanti da forme originali di appropriazione di prodotti o di tecniche rispetto allo sviluppo di spazi comuni che servono da ponte di comunicazione fra modelli alimentari. Da questo punto di vista, i ristoranti di hamburger o le pizzerie costituiscono una sorta di spazi intermedi comuni di prodotti transculturali.
Il complesso di atteggiamenti culturali nei confronti del cibo racchiude molti aspetti fondamentali del modo in cui viviamo; l’economia delle sensazioni, la memoria, la tradizione, l’ecologia della pratica quotidiana e del saper fare, la politica e le relazioni, di fatto, ne determinano il mercato. L’antropologo americano David Sutton ha proposto di considerare il mangiare come «pratica incarnata», poiché il cibo ha il potere di risvegliare memorie sedimentate; in pratica, si tratterebbe di una specie di ritorno al tutto che ha persino del sacro e che spiega l’importanza e la significatività del cibo originario. Per esempio, questo avviene per i migranti che se lo procurano e lo portano nei nuovi luoghi di lavoro, per chi è alla ricerca delle proprie radici, per i turismi culturali che, non a caso, come si è già visto, rincorrono all’enogastronomia. In particolare, poi, tutto ciò si realizza nel saper fare che si esprime in una ricetta di famiglia o nella località visitata; in pratica si realizzano e trasmettono competenze efficaci che trovano così modo di trasmettersi nel tempo, per genealogia, contiguità spaziale o ancora per apprendistato o contaminazione.
Il noto antropologo francese Pierre Bourdieu ha dimostrato che un’esperienza apparentemente privata come quella del gusto sia, in realtà, un fatto sociale e politico.
Essa tuttavia può essere compresa solo investigando le pratiche di costruzione della località e soprattutto in connessione con le particolarità delle reti socio-tecniche che mediano i saperi tradizionali nella loro transizione agli standard della modernità; pertanto, questa attenzione è un interesse non solo socio-antropologico, ma soprattutto politico, storico, economico e filosofico. In particolare, la costruzione sociale della tipicità è solo uno degli aspetti che può assumere quel fenomeno studiato già da tempo e definito «invenzione della tradizione». Ma forse è meglio definire di re-invenzione per cercare di stabilire un processo creativo, ma anche autentico che può coinvolgere sia imprenditori, sia intere comunità che si interrogano sul loro passato alla luce di uno sviluppo economico, compreso quello turistico.
Gian Luigi Bravo ha studiato questo genere di fenomeno per quanto riguarda le feste, sottolinea che in Italia come in Europa la presenza e la sopravvivenza delle tradizioni locali sono sempre mediate e sostenute da attori sociali specifici, diversi e interagenti nel territorio con interessi convergenti o divergenti; essi sono promotori, amministratori e intellettuali locali, insegnanti, studenti, leader politici, associazioni di diverso tipo. Sarebbe, quindi, ingenuo aspettarsi che la riscoperta delle risorse della cultura locale sia sorda alle aspettative anche economiche e di marketing delle amministrazioni locali e anche degli abitanti dei territori interessati a sviluppare «un’imprenditorialità culturale diffusa».
Nel terzo millennio ormai avviato, quindi, stiamo assistendo a un secondo revival, cioè ad un ritorno diffuso di interesse per la riscoperta dei gusti locali e il recupero della memoria dei mestieri; si tratta di un’accorta strategia di vendita della propria immagine a fini legittimamente economici rivolti ad attirare turisti, a vendere i propri prodotti, a trovare impieghi in loco nel settore terziario, piuttosto che dover abbandonare le località povere ed emigrare in città. Questa forma di creatività locale è stata incoraggiata dai progetti di sviluppo locale, che da più di un decennio pongono ormai l’accento sulla necessità di farsi ri-valutatori delle risorse e dei saperi locali con l’intento di sviluppare un’innovatività culturale pragmaticamente orientata verso un’economia locale avanzata. Naturalmente questa strategia richiede un notevole investimento per quanto riguarda la visibilità mediatica dei beni e dei saperi locali, i quali devono essere tutelati e non solo valorizzati tramite apposite norme che consentano i controlli di specifici disciplinari per l’originalità dei marchi e dei prodotti. Attualmente, costruire un prodotto tipico significa quindi «calibrarlo» in modo tale che, nel rispetto della tradizione, venga garantito e abbaia una sua identità basata sulla storia di un dato territorio. Appare ovvio che tali scelte sono esiti di decisioni politiche rivolte a favore della valorizzazione delle risorse locali ormai diventate economicamente convenienti, in quanto qualitativamente valide come prodotti tipici di nicchia. Da qui nascono, per quanto riguarda il cibo, le eccellenze gastronomiche locali che oggi risultano essere competitive sul piano economico e soprattutto per quanto riguarda i sapori. In tale processo di reinvenzione è fondamentale definire la tipicità in termini di diversità, anche se tale costruzione non può prescindere dalla tradizione, cioè da forme di alimentazione radicate nella storia e soprattutto nei territori. L’elemento della memoria è quindi cruciale; documentare tali processi significa raccogliere testimonianze e interpretazioni sulla storia dell’alimentazione che appartiene al patrimonio locale e individuale di coloro che la mettono in atto. Lo straordinario successo di mercato dei prodotti cosiddetti di «nicchia» testimonia la ricerca diffusa, non solo in senso economico, ma anche simbolico e culturale, dell’unicità, della particolarità e della diversità contro la massificazione dei consumi e la standardizzazione del gusto.
I destini delle culture del gusto alimentare dipenderanno dalla creatività con cui in futuro si saprà vivere la contaminazione fra tradizione e modernità innovando e investendo sulla diversità come risorsa. La capacità di reinventare se stessi come custodi della diversità culturale potrebbe rivelarsi un nuovo saper fare, che è quello di scegliere il ruolo di moderni e ben informati imprenditori della località.