Andrà tutto folk

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“Infatti né i medici prima di tutto erano in grado di curare il male per mancanza di conoscenze, ma essi stessi in particolare morivano quanto anche in particolare si accostavano (ai malati), né alcun’altra abilità umana…”
(tucidide - la peste si diffonde in atene, cap. ii)

“Dai paesi che circondano Milano, giungono le notizie delle prime morti. Le autorità rimangono piuttosto indifferenti al problema, anche la popolazione rifiuta l’idea del contagio…”
(a. manzoni, i promessi sposi, capitolo xxxi)

In gioco c’è molto di più, la possibilità stessa di capire chi siamo.

È una guerra non dichiarata, questo è inopinabile ma contro chi combattiamo? Il nemico è invisibile, forte, subdolo e ci ha colto inizialmente impreparati. Dopo quasi due mesi di emergenza possiamo dire che all’inizio non avevamo ben compreso cosa stesse accadendo; troppo evasivo e prorompente per comprenderlo subito e di conseguenza sono emerse le nostre fragilità poiché per anni abbiamo creduto che il pericolo fosse una bomba e non un microbo.

L’emergenza oltre che sanitaria è diventata psicosociale; infatti, fin dai primi giorni, è stato facilmente comprensibile che la crisi non riguardava soltanto il Covid-19 ma anche i suoi effetti indiretti sul Paese: sanità, economia, scuola e, anche nel nostro piccolo, nel mondo dello spettacolo e del folklore.
Aprire l’armadio e osservare in un angolo gli abiti che indossiamo per i nostri spettacoli (pantaloni di velluto, fasce, tamburelli, gonne orlate e ricamate) ci accompagnano mestamente a delle riflessioni. Come in tantissimi armadi. Poi ti chiedi come è possibile? Quanto tempo è passato dall’ultima volta che l’ho indossato? Sembra un’eternità eppure è passato pochissimo tempo.

Fino a metà febbraio, partecipando ai Consigli Elettivi delle provincie siciliane, non si faceva altro che sponsorizzare reciprocamente i raduni e i festival del prossimo periodo primaverile ed estivo; all’improvviso il destino ha premuto sul telecomando mostrando un fermo immagine dei nostri pensieri e dei nostri propositi, facendo svanire e dileguare ciò che attendavamo con trepidazione.
L’incertezza ha rapidamente conquistato la ragione e la sfera emotiva di noi tutti, sconvolgendo uno dei tratti della nostra quotidianità fatta di ripetizione e riti collettivi: sportivi, sociali, culturali e di spettacolo.
Non sappiamo quando potremo inneggiare e cantare tutti insieme, gruppi italiani e stranieri, l’inno internazionale del folklore. Un movimento frenetico delle braccia e delle mani, come a voler cacciare via questo sogno angoscioso e oppressivo quasi fosse una soluzione antivirale al Covid-19. E io scopro che baratterei qualsiasi cosa in cambio di una scadenza. Una qualsiasi! Qualcosa che permetta di programmare, organizzare anche un piccolo evento cioè di ricominciare a sperare, di cacciare via la paura vissuta e desiderare di avere ancora il controllo di quanto ci succede. Eravamo abituati a destreggiarci tra scadenze e ricorrenze; all’improvviso la vita, privata e pubblica, è diventata un dilemma.

Quel raduno, quel Festival, quello spettacolo sono rinviati «a data da destinarsi». O da cestinarsi? Sappiamo solo che al momento ci ha privato del «Fanciullo e Folklore», rassegna prestigiosa che esprime e simboleggia la voglia di rinascita e di speranza nel futuro delle nuove generazioni.
Di certo impareremo e riscopriremo qualcosa alla fine della burrasca: i valori della famiglia, il tempo che fugge, di quanto a volte siamo attratti e distratti da futilità e inezie. Tutto ciò potrà mantenerci umani e un po’ più distanti dalla civiltà digitale: contatti, voci, abilità delle mani, imperfezioni.
Usanze che avevamo perso o dimenticato nella quotidianità ma che la nostra passione e amore per la cultura popolare ricreano in ogni singola esibizione. La vera ricchezza sarà l’umanesimo che sarà la nostra quotidianità ed uno spazio del fare che non ci faremo rubare.

Ciò che è sempre stato un gesto quotidiano, banale e consueto come un abbraccio, lo comprenderemo come una conquista, come una sfida al nemico invisibile che ci ha privato della nostra indipendenza e autonomia.
Ritorneremo a vedere la più semplice espressione di gioia: il sorriso di ogni componente dei Gruppi folk da troppo tempo coperto da una maschera che ci ha reso uguali e conformi al pari degli automi.
Adesso che realizziamo cosa vuol dire essere «reclusi» e costretti a sovvertire la quotidianità capiremo quanto siamo fortunati a vivere in un Paese meraviglioso. Un Paese che, nonostante le molteplici difficoltà e avversità, sta combattendo vigorosamente e orgogliosamente contro il mostro misterioso.

Il percorso per tornare alla normalità è lungo, scosceso e ripido. Si pensa al dopo, ai mesi estivi in attesa di un vaccino o di una terapia efficace mentre ancora l’obiettivo per azzerare i contagi è lontanissimo e quando tutto sembrerà finito non potrà esserlo ancora. Ma intanto stiamo imparando che forse siamo meglio di quello che pensavamo di essere, al netto di tanti difetti. Il problema sarà di ricordarsene dopo, quando la tempesta sarà passata e il tempo tornerà a correre.
Si devono rispettare le regole, con rigore: quanto più lo faremo tanto meno durerà questa crisi. E tanto più aiuteremo medici, infermieri e personale sanitario, impegnati giorno e notte a salvare vite umane. Come italiani siamo stati i primi nel mondo occidentale a essere colpiti in maniera così dura. All’inizio gli altri Paesi ci hanno guardato con sufficienza, come se essere contagiati fosse una conseguenza del nostro carattere. Ora vediamo che il virus, purtroppo, non conosce confini e sta «celebrando il suo Festival Internazionale».
È questa la grande occasione per diventare adulti, meno emotivi e scomposti di come ci vorrebbero certi media. E forse, davvero civili.