Animali e tradizioni

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Fin dal lontano mitico tempo dell’arca di Noè, ovvero da sempre, da quando esistono gli uomini, in quanto animali mammiferi, si sono confrontati con gli animali come referenti e compagni dell’esistenza. Con essi si incontrano in forme e condizioni diverse a seconda del contesto spaziale, ambientale e storico, In particolare, per diversi animali carnivori, gli uomini costituiscono un oggetto di caccia e comunque cibo da mangiare. Però, di fronte a tale reciproca condizione, nella quale gli esseri viventi sono cibo l’uno dell’altro, gli uomini, grazie al vantaggio della ragione e, quindi, della memorizzazione delle esperienze e della relativa trasmissione alle generazioni future, si sono imposti come primati assoluti dominando tutta la natura. In questo modo, gli uomini hanno trasformato i materiali naturali in cultura da tramandare ai loro discendenti come sapere acquisito. Per esempio, hanno classificato e distinto le diverse piante e i differenti animali: da qui il formarsi, nei diversi contesti geografici e storici, delle differenti culture col tempo definite anche come “civiltà”, nella misura in cui un dato gruppo umano ha raggiunto la condizione di risiedere in un insediamento urbano, ovvero nelle “città”.
I rapporti degli uomini con gli animali, oltre aver prodotto, nei vari contesti geografici, specifici patrimoni culturali ergologici per meglio determinarne i rapporti e relativi sfruttamenti, hanno contribuito ad elaborare particolari simbologie mitiche che vengono assunte e trasferite nelle differenti credenze religiose. Un esempio significativo lo si trova nella cultura ebraico-cristiana, nell’Antico Testamento, nella figura del serpente che inganna Eva perché mangi il frutto proibito colto dall’albero della vita che cresce nel Paradiso Terrestre. 
Gli interessi per gli animali, dopo l’alimentazione, hanno riguardato soprattutto le pratiche dell’allevamento per le specie più facilmente addomesticabili come i bovini, gli equini, gli ovini e i suini. L’addomesticamento rende più facile il rapporto e il relativo sfruttamento. Da qui l’elaborazione del particolare patrimonio delle pratiche di addomesticamento delle differenti specie di animali definiti domestici. Come è noto, nei vari contesti geografici e ambientali sono state elaborate tecniche specifiche per addomesticare gli animali originari di differenti aree geografiche. 
I rapporti tra gli uomini e gli animali addomesticabili si sono sviluppati in forme e modi diversi provvedendo, per esempio, a seconda delle specie, a difendersi dall’aggressività degli animali di grossa taglia al fine di avviarli ad un proficuo controllo tramite la doma. 
Dalla pratica ed elaborazione culturale della caccia, come è noto, derivano le tecniche per la cattura per procurare cibo, ma anche per l’allevamento. Questa pratica ha consentito, nel divenire storico, l’acquisizione graduale di conoscenze al fine di ottenerne la riproduzione in cattività di diversi animali mansueti e il relativo sfruttamento per quanto riguarda le prestazioni e quanto essi siano in grado di produrre. Tale apparato di conoscenze costituisce la base del patrimonio culturale del pastoralismo. Questo si differenzia adeguandosi ai diversi tipi di animali e alle differenti realtà ambientali. 
In tale quadro, pertanto, sia la caccia, sia l’allevamento assumono caratteristiche specifiche se praticate in mare o nelle terre emerse, essendo habitat naturali differenti in cui sono differenti gli animali coi quali gli uomini entrano in rapporto. Nei diversi contesti, infatti, sono stati elaborati tecniche e saperi differenti adeguati alle diverse situazioni. È risaputo, al riguardo, che la cattura, l’allevamento e l’eventuale addestramento, tramite ammaestramento, hanno avuto pochi e rari esempi con animali acquatici proprio a causa di un habitat per gli uomini di difficile dominio. L’ammaestramento di foche ed orche o di altri grandi mammiferi anfibi, per scopi e in ambienti circensi, costituiscono esempi abbastanza singolari. 
Le naturali differenze e le conseguenti distinzioni classificatorie di specie e famiglie di animali e di vegetali, adottate dagli uomini, hanno contribuito all’elaborazione di correlative classificazioni claniche nelle quali, nell’ordine sociale, i clan spesso sono definiti con nomi di animali considerati come fondatori o progenitori della stirpe e della discendenza clanica. A questo riguardo Claude Lévi-Strauss, in Totemismo oggi, apparso in Italia nel 1964, due anni dopo la prima edizione francese, polemizzando con l’interpretazione denotativa del totemismo che riteneva troppo astratta l’omologia tra classificazione totemica e strutture sociali, scrive:
… si tratta di sapere perché i regni animale e vegetale offrano una nomenclatura privilegiata per denotare il sistema sociologico, e quali rapporti esistano logicamente tra il sistema denotativo e il sistema denotato. Il mondo animale e il mondo vegetale non vengono utilizzati soltanto perché ci sono, ma perché propongono all’uomo un metodo di pensiero. La connessione tra il rapporto dell’uomo con la natura e la caratterizzazione dei gruppi sociali, che Boas considera contingente e arbitraria, non sembra tale perché il legame reale tra i due ordini è indiretto, e passa attraverso lo spirito. Il quale postula una omologia, non tanto in seno al sistema denotativo, ma tra variabili che esistono, da una parte tra la specie x e la specie y, dall’altra tra il clan a e il clan b1.
In sostanza, la classificazione totemica dei clan spesso può essere definita come l’associazione di un animale ad un gruppo lignatico, il quale considera quell’animale totemico come il proprio capostipite fondatore del clan. Infatti, Lévi-Strauss precisa che:
…Il termine totemismo copre relazioni, idealmente poste, tra due serie, l’una naturale, l’altra culturale. La serie naturale comprende da una parte delle categorie, dall’altra degli individui; la serie culturale comprende gruppi e persone 2.
Tramite la simbologia totemica gli animali, quantunque differenti e distinti dagli esseri umani nel quadro della natura vengono assunti ed omologati nel vasto contesto della cultura e, in diversi casi, elevati a fondatori del gruppo sociale e, conseguentemente delle relative strutture di parentela e di produzione di beni. Tramite questi si ottiene il sostentamento alimentare della comunità, sia in relazione alla caccia o all’allevamento di animali, sia per quanto riguarda le diverse attività agricole di raccolta spontanea o di coltivazione. Entrambi i settori costituiscono il fondamento dei sistemi economici della produzione primaria cui si connette quello della produzione artigianale di strumenti da lavoro. A proposito del sistema concernente l’allevamento degli animali, in un saggio sulla pastorizia apparso nel 1980 nell’Enciclopedia Einaudi, Ugo Fabietti sostiene che il fenomeno del pastoralismo …Dovette verificarsi necessariamente in presenza delle seguenti condizioni: il possesso, da parte dell’uomo, di un sapere empirico relativo al comportamento dei branchi; l’esistenza di un sistema ecologico adatto; la possibilità effettiva di utilizzare le risorse animali. Con il domesticamento l’uomo pose così le basi di un nuovo processo produttivo che, per quanto riguardava gli animali, si rifletteva in una serie di cambiamenti, come la progressiva riduzione dell’aggressività delle specie domesticate; l’accentuazione delle caratteristiche “utili” dell’animale, e quindi la mutazione delle sue caratteristiche fisiologiche e morfologiche; la manipolazione del tasso di riproduzione; e, infine, la maggiore, se non totale, dipendenza dell’animale dall’uomo dal punto di vista alimentare3.
Di fatto, il rapporto degli uomini con il mondo animale, in concreto, risulta produrre, con una parte importante della natura, contatti privilegiati che strutturano apparati culturali abbastanza particolari, come, per esempio, l’elaborazione di specifici metalinguaggi per impartire ordini e per fondare importanti e complessi sistemi economico-produttivi.
Infatti, è acquisito da tempo che, per produrre cultura, gli uomini operano secondo specifici rapporti tra condizioni oggettive di vita e relative ideologie e simboli che ne derivano. Grazie alle ideologie e ai simboli gli uomini definiscono e utilizzano sistemi di comunicazione e di rappresentazione, al fine di dare senso e consenso a se stessi e alla realtà. A detti sistemi si rapportano l’elaborazione e la produzione di linguaggi, di istituzioni sociali e comunitarie con forme simboliche caratterizzanti le differenti realtà umane, nonché la formulazione di miti e apparati rituali. Sui medesimi presupposti oggettivi si elaborano, inoltre, particolari credenze religiose e le relative liturgie che strutturano le calendarizzazioni dei rituali e le connesse forme di rappresentazione sociale. Da qui deriva il rapporto tra l’ordinamento rituale del continuum del tempo con il relativo momento festivo, culturalmente definito e inteso come interruzione del lavoro e della produzione, necessaria per consumare socialmente i beni4.
In tale quadro, inaftti, si collocano tutte le «grandi feste»5, intese come momenti di fine ed inizio del ciclo dell’anno. I carnevali sono le forme più interessanti che ssono state elaborate, in particolare, nella cultura popolare europea e non solo, nel contesto delle teatralizzazioni festive. In queste occasioni ed in numerose altre di tipo rituale riscontrabili in culture diffuse a livello mondiale, sia nel passato sia ancora oggi, vengono impiegate maschere zoomorfe che dimostrano le particolari elaborazioni simboliche determinate, nelle diverse realtà dal rapporto uomo-animali. In questa sede si può soltanto far cenno ai numerosi significati simbolici che proprio le maschere assumono e su cui esiste, anche in relazione ai loro diversi utilizzi nel campo religioso e profano, una vasta letteratura. Al riguardo, appare rilevante il passaggio delle maschere, nella trasfigurazione simbolica propria del campo religioso nel quale si colloca l’orizzonte del sacro come risposta esistenziale, dalla teatralità del rito allo spettacolo e delle rappresentazioni teatrali e festive, quali sono le diverse forme di carnevali6. In altri contesti culturali, invece, esse hanno conservato la loro essenziale funzione rituale ascritta ad uno specifico ambito religioso. Costituiscono esempi interessanti le maschere dei Dogon, documentate da Marcel Griaule nel 19387 e quelle rituali delle tribù della costa nord-ovest dell’America settentrionale (Tlingit, Haida, Tsimshian, Bella Coola e Kwakiud), osservate da Claude Lévi-Strauss nel 1943 nell’American Museum of Natural History di New York, sulle quali, nel 1979, ha pubblicato La voie des masques8. 
A questo punto si pone il problema di definire le funzioni sociali e simboliche delle maschere e, in particolare, di quelle zoomorfe. In generale, secondo una diffusa opinione, tali funzioni rientrano nel complesso processo di trasfigurazione, camuffamento e misconoscimento che gli uomini adottano, soprattutto nel campo religioso, al fine di esprimere e definire realtà e situazioni mitiche, in quanto tali sostanzialmente sconosciute e, quindi, rappresentabili tramite un’elaborazione simbolica. In sostanza, tali trasfigurazioni mistificano la reale identità di coloro che indossano le maschere; di fatto, servono ad ingannare ma anche a rappresentare simbolicamente coloro che, in quel momento, giocano un ruolo sociale determinante nell’azione liturgica, teatrale o festiva; in pratica, svolgono la funzione prevalente di rappresentare e comunicare in modo simbolico il mito, la divinità che lo sottende oppure, nel teatro, i personaggi di una vicenda, così come, nel carnevale, le personalità da deridere o da denigrare.
Funzioni a cui prima si è fatto riferimento, però, devono essere storicizzate, in quanto, sia nelle diverse epoche, sia nei diversi contesti culturali, le maschere hanno determinato esiti differenti, adeguati alle particolari situazioni locali. Infatti, nel quadro culturale euro-mediterraneo, maschere e carnevali sono caratterizzati da loro specificità economico-sociali e storiche. Per esempio, nella tradizione europea, il Carnevale diventa un periodo che subentra alla grande festa del Capodanno anticipando, come contrapposizione simbolica, la Quaresima. Nel sistema produttivo della tradizione agro-pastorale euromediterranea, di fatto, il Carnevale costituisce, insieme al Capodanno, occasione di stasi dei lavori agricoli, anche per effetto della stagione invernale e della conseguente interruzione del ciclo vegetativo. In entrambi questi momenti si verificano le condizioni di disporre di abbondanze alimentari. Per converso, la quaresima, che subentra al Carnevale, segna la ripresa della vegetazione e l’inizio della rinascita nei cui confronti è necessario compiere opportuni rituali purificatori tramite digiuni ed astinenze di ogni genere.
In questo quadro culturale, quindi, si collocano tutte le tradizioni carnevalesche europee, comprese quelle delle regioni italiane, dove il sostrato ecomico-sociale prevalente, soprattutto nelle comunità rurali, è di tipo rurale e pastorale.
Per esempio, diverse maschere dei carnevali della Sardegna, ed in particolare quelle delle aree pastorali della Barbagia9, sono zoomorfe. Infatti, esse sono utilizzate nelle realtà produttive e socio-culturali pastorali dove l’allevamento rappresenta l’attività predominante che condiziona, sia pur in dimensioni diverse, tutte le manifestazioni festive. Il Carnevale costituisce un’occasione importante e sentita per le comunità in cui il lavoro dell’allevamento segna la stasi invernale tra la prima e la seconda nascita degli agnelli, cioè, tra quelli nati in autunno, prima di Natale, e quelli nati in primavera, prima della Pasqua.
La maschera barbaricina più nota è certamente quella dei mamuthones, di Mamoiada, i cui lineamenti del volto hanno una fisionomia un pò zoomorfa, sebbene il vestiario e gli addobbi della mastrucca e dei campanacci rimandano al gregge e alle pecore. La mastrucca dal vello nero, infatti, rimanda alla pecora particolare si distingue dalle altre che hanno il vello bianco. Nell’immaginario collettivo mediterraneo, la «pecora nera» simboleggia una certa anomalia, ovvero la devianza rispetto alla norma espressa dal vello bianco del resto del gregge.
La maschera dei mamuthones è realizzata in legno con lineamenti molto forti che riproducono, come stereotipo, un viso con una smorfia sofferente, quasi bestiale. Questo dato immediato consente di intravvedere, nell’andamento processionale cadenzato dai saltelli del gruppo mascherato, l’intento di rappresentare la bestialità aggressiva degli animali, tenuti a bada e controllati da altre maschere antropomorfe che rappresentano i guardiani, i cosiddetti issocadores, che seguono e circondano i mamuthones, catturandoli con lacci, così come fanno i pastori con gli animali da riportare all’ovile. La simbologia di questa maschera è abbastanza evidente: con essa i pastori ironizzano se stessi, riproponendo le proprie condizioni di vita, quando, nella solitudine dei pascoli, si presentano le occasioni per diventare come gli animali che custodiscono, così imbestialendosi in modi diversi10.
Sempre in Barbagia, nelle comunità di Ottana e Orotelli, la cui economia prevalente si basa sull’allevamento bovino, stante la tipologia valliva delle campagne, vengono adottati mascheramenti zoomorfi che rappresentano tori, giovenche e buoi aggiogati all’aratro11. Ad Ottana le maschere principali sono «i bovini e i mandriani», ovvero i boes e i merdules, la cui ultima denominazione rimanda, nella lingua sarda, alla definizione di sterco. I merdules, infatti, con le loro maschere facciali rappresentano i bovari che, stando sempre dietro le bestie, si sporcano costantemente del loro sterco, evitando sempre di lavarsi ed abbrutendosi così tanto da apparire come i bovini che governano. L’abbigliamento base è quello indossato dai pastori barbaricini nella prima metà del ‘900: un normale abito in orbace o in fustagno oppure in velluto, scarponi e gambali, una mastrucca di pelle di pecora bianca o nera. La testa è coperta da un pesante fazzoletto scuro. Sa Filonzana, che rimanda al mito delle Parche che tagliano il filo della vita e danno la morte, è una maschera con fisionomie deformi e soprattutto con un naso prominente, spesso adunco, che forse simboleggia una sessualità maschile abnorme. La maschera dei merdules, invece, può rappresentare entrambe i generi. Le maschere femminili hanno un volto dai lineamenti delicati, sebbene deformi e con il naso anch’esso adunco, di equivalente simbologia. Gli abiti sono ovviamente adatti al genere: un’ampia gonna, una camicia e un giubbino, tutti realizzati con stoffe scure e sul capo un fazzoletto nero che, sul davanti, incornicia la maschera facciale. Come si è accennato prima la maschera femminile e quella della Filonzana (la filatrice). 
I boes, ovvero i bovini, indossano, sopra normali indumenti, pesanti mastrucche realizzate con pellicce di pecore bianche o nere; hanno il volto nascosto da maschere taurine incorniciate da appositi fazzoletti scuri, mentre le gambe sono avvolte da gambali fatti anch’essi con pellicce variegate di pecore. Le maschere bovine assumono le sembianze di tori, di giovenche, di vacche o buoi da traino. La loro differenza è resa palese dal tipo di maschera facciale e soprattutto dal relativo comportamento. Nella sceneggiata carnevalesca, per esempio, la distinzione sessuale impone loro ruoli comportamentali adeguati: perciò, nelle pantomime che ogni tanto improvvisano, i tori si comportano in modo aggressivo mimando di montare giovenche e vacche. In altre rappresentazioni, invece, riproducono le loro lotte per il relativo predominio delle femmine della mandria. Nelle variegate pantomime che vengono esibite ad Ottana, spesso viene rappresentata la castrazione dei tori da parte dei merdules, al fine di ottenerne tranquilli bovini da traino. Altra simbologia fallica è il traino con un giogo di boes di un aratro a chiodo. Caratteri abbastanza simili a queste sceneggiate sono quelle delle maschere di Orotelli i thurpos (i ciechi); questi pungolano, anche in questo caso, coppie maschere di bovini aggiogati un a aratro oppure a un carro. La loro fisionomia è identica, sia che simboleggi i buoi, sia che rimandi alle persone che li guidano. In entrambi i casi, queste maschere assumono un aspetto molto semplice, peraltro realizzato dipingendo il volto con fuliggine e indossando il pesante capotto dei pastori in orbace e cappuccio.
A Lula, comunità di allevatori di ovini, di capre e di bovini, posta alle pendici del Monte Albo, è presente la maschera del battileddu, che significa sottosella oppure zerbino, in quanto rappresenta un individuo di poco conto e per di più disprezzato da tutti. Ha il volto tinto di fuliggine e porta sulla testa una sorta di copricapo realizzato con un rumine e corna di capra. Indossa, inoltre, una mastrucca nera su un abito molto discinto, mentre sul davanti, all’altezza del petto, nasconde lo stomaco di una pecora, pieno di sangue. Nella pantomima carnevalesca, dopo essere stato rincorso a lungo da altri membri del gruppo anch’essi azzimati con mastrucche nere, viene catturato e, una volta messo a terra, con un coltello a serramanico gli viene punto lo stomaco di pecora con la conseguente fuoruscita del sangue. 
Nella simbologia della pantomima, in sostanza, il Battileddu svolge il ruolo del capro espiatorio, ovvero dell’individuo posto al livello più basso della comunità e per questo escluso e sacrificato, in quanto considerato responsabile di tutti i mali e danni sociali.
Ad Austis, un paese posto al centro dell’isola tra le Barbagie di Gavoi e Sorgono, si indossa la maschera dei Colonganos, realizzata con un copricapo in pelliccia di pecora nera, sovrastata da corna di cervo. Il resto dell’abbigliamento è composto da mastrucca e gambali, anch’essi rivestiti con pelliccia di pecora. La caratteristica dei Colonganos, però, a differenza di molte altre maschere delle comunità pastorali che indossano una grande quantità di campanacci, è quella di portare appesa sul retro una grande quantità di ossi di svariati animali che, tra i movimenti e le pantomime producono un rumore particolare con significati apotropaici. Come è evidente, anche in questo caso, la simbologia essenziale rimanda all’assimilazione dell’uomo con le bestie e alla relativa esorcizzazione. 
Analogo significato simbolico si può ritrovare nelle maschere dei Mamutzones di Samugheo, un paese posto a sud-ovest di Austis, ai margini del Barigadu e del lato settentrionale del Monte Arci. Anche queste maschere hanno un copricapo in pelliccia di pecora, solitamente nero, sul quale sono sistemate corna di muflone o di capra. Intorno al busto, appesi a varie file di cinghie, sono presenti grossi campanacci di diverse dimensioni che, con l’incedere a saltelli in formazione processionale, riproducono uno scampanellio simile a quello prodotto da una mandria di bovini.
Identica simbologia animalesca hanno, a loro volta, i Cotzulados di Cuglieri, una cittadina posta nelle colline del Montiferru, nella Sardegna centro-occidentale. In questo caso, però, le maschere portano un copricapo in pelliccia bianca di pecora con sulla fronte un corno di bovino, mentre viso e braccia dei mascherati sono tinti di polvere gialla e rossa. Il resto dell’abbigliamento è composto da una mastrucca ugualmente di pelliccia bianca, oltre che da maglie e pantaloni bianchi. La loro principale caratteristica è costituita da grappoli di gusci di conchiglie, appesi con cinghie sulle spalle e anteriormente sul petto. Nell’incedere dei mascherati le conchiglie sbattono tra di loro producendo un tintinnio particolare i cui significati simbolici rimandano agli ossi dei Colonganos di Austis. È importante rilevare che, in entrambi i contesti, il suono è prodotto con resti di animali ormai morti. Forse, in questi casi, la morte, nell’ironia carnevalesca, viene esorcizzata con ciò che rimane dalla decomposizione della carne: con gli ossi e con i gusci che sono, di fatto, pietre sonore che, in quanto tali, hanno lunga vita nella loro oggettività materiale e simbolica. In conclusione, quindi, appare opportuno riflettere come, dagli esempi fin qui proposti, ancora una volta si convalidi lo stretto rapporto tra condizioni oggettive della realtà vissuta dagli uomini ed elaborazioni culturali prodotte sempre dagli uomini. Le elaborazioni culturali e le relative simbologie carnevalesche, così come quelle festive, infatti, sono espressioni significative e identitarie che rispecchiano la realtà oggettiva in cui vengono elaborate e utilizzate come patrimonio caratterizzante le identità locali.