Il processo di sistematizzazione e moralizzazione delle pratiche e delle rappresentazioni religiose, come sostiene Pierre Bourdieu in un noto saggio del 1971 sulla genesi e struttura della religione, “porta dal mito come (quasi) sistema oggettivamente sistematico all’ideologia religiosa come (quasi) sistema esplicitamente sistematizzato; parallelamente, dal tabu e dalla contaminazione magica al peccato; dal mana, dal “numinoso” e dal Dio punitore, arbitrario e imprevedibile, al Dio giusto e buono, garante e protettore dell’ordine della natura e della società”.In sostanza, con tale processo di elaborazione culturale gli uomini arrivano alla produzione, riproduzione e diffusione dei beni di salvezza, cioè, alla costituzione delle istanze che caratterizzano il campo religioso e la vita religiosa nella quale, insieme all’elaborazione di miti, vengono istituiti riti e culti con le relative liturgie. Per far funzionare socialmente le liturgie, però, vengono elaborate pratiche devozionali individuali e collettive.
In tale quadro si colloca la distinzione durkheimiana di sacro e profano. Nel medesimo contesto ideologico gli operatori o specialisti del sacro elaborano la gestione del potere religioso, rispetto ai ‘laici’ o ‘profani’ che ne sono esclusi restando soltanto fruitori della ‘grazia’ divina, però, ottenuta tramite l’intermediazione proprio degli operatori o specialisti del sacro, i sacerdoti così come vengono definiti nelle rispettive gerarchie ecclesiastiche.
Questa premessa generale consente di cogliere, con esempi tratti proprio dal folklore religioso, come diverse pratiche devozionali adottate da associazioni definite “laiche”, quali le confraternite o le antiche corporazioni di mestiere, siano in ogni caso controllate dal clero che le ingloba nel sistema rituale e liturgico ufficiale, al fine di evitare una loro possibile deviazione eterodossa.
Nel quadro dell’anno liturgico, per esempio, tra le feste calendariali importanti, in diverse regioni italiane, vengono celebrate cerimonie religiose e feste in onore di sant’Antonio abate che cadono tra il 16 e il 17 di gennaio. In numerose comunità, a questo santo sono dedicate diverse chiese, spesso gestite da confraternite di laici, i quali contribuiscono a conservare il culto e la tradizione devozionale che pare rimandino a influssi greco-bizantini presenti nel primo Cristianesimo.
Secondo gli storici del Cristianesimo, infatti, il clero meridionale, sino alla conquista araba del nord Africa avvenuta nell’VIII secolo, è rimasto sotto il controllo della Diocesi di Cartagine che rientrava nell’osservanza del patriarca di Bisanzio. Pertanto, nell’Italia meridionale, l’influsso culturale bizantino ha continuato in modo autonomo fino all’XI secolo. In seguito, dopo la reciproca scomunica nel 1054 tra il papa romano Leone IX e il patriarca di Costantinopoli Michele Gerulario e quindi la definizione dello Scisma d’Oriente, la Chiesa di gran parte delle regioni italiane meridionali fu assegnata alla giurisdizione del clero occidentale, in particolare ai benedettini che fondarono numerosi monasteri, fra i quali il più importante è quello di Montecassino.
Di fatto la tradizione del culto e della devozione a Sant’Antonio abate si colloca tra le più importanti dell’ascetismo anacoreta del primo Cristianesimo. Tale culto, formatosi in Egitto nella seconda metà del III secolo e diffondendosi in tutta Europa soltanto nell’XI, ha suscitato un particolare interesse popolare quando, in occasione della traslazione delle reliquie del santo, si interruppe una grave pestilenza, l’herpes zoster, dai cronisti del tempo definita ignis sacer.
Il popolo e il clero del tempo, infatti, considerarono l’avvenimento come un miracolo, confermando così la fama dei poteri taumaturgici del santo, già noto per aver sconfitto le “tentazioni” del demonio, per aver compiuto numerosi miracoli e per aver concesso particolari “grazie” a chi lo invocava. Fra l’altro, è opportuno precisare, per cogliere le qualità taumaturgiche e devozionali a lui riconosciute soprattutto dalle popolazioni agro-pastorali, che lo stereotipo iconografico più diffuso di Sant’Antonio riproduce un vecchio eremita con accanto un maialino, altri animali da cortile e da allevamento. Da qui l’elaborazione della fama di protettore degli animali oltre che di terapeuta miracoloso delle affezioni da herpes zoster.
Una sintesi sull’elaborazione mitica, sul culto e i rituali dedicati a Sant’Antonio abate si trovano nel lavoro di Alfonso M. di Nola Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana, pubblicato nel 1976, dove è riportata gran parte della letteratura riguardante la tradizione agiografica e le credenze magico-religiose ad essa connessa. Inoltre, nel lavoro viene analizzata la pratica dei falò accesi la sera del 16 gennaio, in occasione della vigilia della festa del santo. Secondo la tradizione popolare i falò richiamerebbero la simbologia esantematica dell’herpes zoster o ignis sacer.
Come è noto, l’herpes zoster è un’affezione con esantema cutaneo e con febbre alta. Per questa malattia, però, sembra che non ci sia una terapia specifica; viene indicato l’impiego di retrovirus con modesti risultati positivi, in base a quanto riportano le pubblicazioni mediche.
Secondo alcuni studiosi, i falò rimanderebbero a culti e riti propiziatori precristiani compiuti in occasione del solstizio invernale nel quale si credeva che il sole rischiasse di non tornare mai più (di Nola, 1976: pp. 181-265). Sulla tradizione dei falò, nel contesto culturale delle comunità siciliane, a partire dagli anni ’90 del Novecento, Ignazio Buttitta ha condotto diverse ricerche pubblicando interessanti opere tra le quali Le fiamme dei santi. Usi rituali del fuoco in Sicilia (1999); Il fuoco. Simbolismo e pratiche rituali (2002).
In Sardegna, la pratica dei falò, accesi alla vigilia della festa del santo, è abbastanza diffusa. In essa risulta evidente l’assimilazione sincretica compiuta dalla Chiesa; infatti, insieme al controllo cultuale, portato nel quadro della liturgia ufficiale, viene seguita la devozione dei fedeli per il santo che si rinnova costantemente.
Diversi giorni prima del 16 di gennaio, i componenti dei comitati organizzatori della festa si ritrovano per raccogliere, nelle campagne circostanti, una grande quantità di legna di ogni tipo per realizzare cataste. In genere, si tratta di grossi tronchi di alberi secchi, di fascine composte da frasche, appositamente preparate per alimentare le fiamme che contribuiscono a tenere vivo e alto il fuoco.
La sera della vigilia della festa, solitamente nella piazza della chiesa dedicata al santo, sono pronte una o più cataste di legna. In diversi casi sono tre cataste, distinte per i giovani, gli adulti e gli anziani. In questo modo, le tre cataste rappresentano tutta la comunità, suddivisa in classi d’età che offrono al santo, tramite il falò, il segno della devozione, con l’intento di ottenere protezione e “grazie”.
L’operazione rituale che avvia l’accensione dei falò è sempre attuata dal sacerdote che regge la parrocchia della comunità. Dopo la celebrazione di una messa vespertina, il parroco, accompagnato in processione dal corteo dei chierichetti, dei confratelli e delle consorelle, compie tre giri in senso orario e altri tre in senso antiorario intorno alla catasta o alle tre cataste a seconda della tradizione. La simbologia dei tre giri tende a dimostrare che quelli compiuti in senso orario legano e gli altri sciolgono. Il sacerdote quindi asperge acqua benedetta, fermandosi ad ogni giro per quattro volte in corrispondenza dei bracci di una croce ideale.
Alla conclusione del rito alcuni confratelli, appositamente delegati, appiccano il fuoco in più punti della catasta, dove sono le fascine insieme ad erba secca. L’operazione avvia facilmente le fiamme e così l’accensione del falò. A seconda dell’andamento iniziale del fuoco, la gente che assiste trae buoni o cattivi auspici. Nel passato, per esempio, quando il sistema produttivo era soprattutto agro-pastorale preindustriale, si credeva che l’accensione rapida del falò indicasse una buona annata; al contrario, i ritardi nello svilupparsi delle fiamme o lo spegnersi dei primi focolai venivano interpretati come segni di possibile carestia.
Attualmente, invece, nel contesto della società dei consumi e del benessere, persiste soltanto come costante l’ideologia della propiziazione e della relativa richiesta di “grazia”. Tutto il quadro di credenze, però, è trasferito soprattutto per ottenere buona salute. In questo modo, si cerca di controllare i diversi rischi che provengono da malattie per le quali la biomedicina non è ancora riuscita a trovare definitivi e specifici rimedi. Le richieste al santo di farsi scudo per evitare gravi malattie o per ottenere la “grazia” per la guarigione costituiscono ancora oggi motivo di particolare devozione. In tutti i casi persiste quanto è avvenuto in un lontano passato in occasione della diffusione ed interruzione della pestilenza di herpes zoster.
L’affezione è definita da tutti come fuoco di Sant’Antonio a causa dell’esantema, come si è già accennato, diffuso nel corpo di chi si ammala e la relativa sintomatologia simile a quella delle scottature.
Secondo la tradizione, quindi, da tanto tempo si crede che la guarigione avvenga dopo una messa celebrata di nascosto in onore del santo. L’obolo da offrire al sacerdote officiante, inoltre, deve essere ricavato con una questua anch’essa segreta.
Nel loro complesso, il culto, i diversi rituali e le relative credenze sulle virtù taumaturgiche di Sant’Antonio alle quali si aggiungono i poteri protettivi nei confronti degli animali, costituiscono la base di una forte attrazione devozionale dei fedeli, gestita e controllata dalla Chiesa tramite il clero locale. In pratica, nella vita religiosa comunitaria, nel rapporto tra religiosità ufficiale e religiosità cosiddetta popolare si stabiliscono delle connessioni operative tra vertice e base sociale che funzionano come strutture atte a provocare e creare consenso: per esempio, la collaborazione tra le organizzazioni paraliturgiche come le confraternite e il clero. Infatti, gli operatori legittimati e autorizzati ad operare nel sacro, il clero diocesano e quello dei vari ordini religiosi e congregazioni, proprio allo scopo di ottenere adesioni di fede e consenso nell’ambito dell’amministrazione pastorale e parrocchiale, arrivano al compromesso di accettare forme e pratiche rituali paraliturgiche, come quelle per Sant’Antonio, sino a casi di intenso sincretismo magico-religioso. Di fatto il clero, invece di ignorare e misconoscere le pratiche che potrebbero essere definite eterodosse, utilizza una strategia che ingloba in sé le pratiche tradizionali seguite dalle popolazioni delle diverse comunità. La strategia più seguita è quella di assimilare ed inglobare, nella pratica liturgica ufficiale, tutte le forme di devozione popolare delle diverse realtà religiose locali.