Francesco Jovine - 71° anniversario dalla scomparsa

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«A noi – suoi colleghi – la morte di Francesco Jovine avvenuta domenica 30 aprile alle ore 7.45, ci è parsa ingiuriosa, inesplicabile. Proprio il cuore generoso e disordinato dell’amico, si è schiantato!

Uno spirito che ha donato e richiesto amore a tutti: alla sua Dina, ai fratelli, al suo paese, alla letteratura. Abbiamo approfittato tutti del suo gran cuore che, per quarantasette anni, ha scandito il ritmo ampio e caloroso di un’esistenza piena di giuste passioni, di bontà e di lavoro spumeggiante. Lo scrittore di Guardialfiera ha conosciuto e rispettato i poverissimi contadini del paese, i cafoni senza pane, gli artigiani sventurati; l’esistenza mediocre del piccolo borghese e di un prete pittoresco. Ha conosciuto il duro lavoro intellettuale insidiato giorno per giorno dalla brutale avidità di coloro che reggono il “mercato”. Tutte le storture della società maledetta, Jovine le ha sperimentate, denunciate e patite in sé e negli altri.»

Questo il triste annuncio, dalle parole forti, di un grande letterato che, nato il 16 maggio 1905, ha avuto la fortuna di conoscere Francesco Jovine e raccontarne le gesta letterarie, nella sua lunga vita che ebbe termine il 3 maggio 1993. Chi ha conosciuto Francesco Jovine, ne racconta come di uno scrittore senza tempo, pieno d’amore per la sua terra, “il Molise”, per la sua gente , per la sua Guardialfiera, dove era nato il 9 ottobre 1902. Insieme a Vincenzo Di Sabato – illustre personaggio anch’egli guardiese, mentore di cultura, – abbiamo voluto raccogliere, in ricordo del più grande scrittore e poeta Molisano di tutti i tempi, delle vive impressioni da personaggi che, della vita di Jovine, ne han fatto la propria, collezionando studi, memorie, scritti e ricordi nel tempo senza tempo.

L’amico Giovanni Mascia, che più volte ha espresso la sua vicinanza artistica a Jovine, ha ripercorso uno dei più bei passaggi letterari delle Terre del Sacramento, ultima opera di Francesco che vide la luce, subito dopo la sua dipartita.

Un’opera dalla levatura poetica e narrativa senza pari, senza limiti di grandezza che, postumo, nel 1950, valse al suo autore il premio Viareggio.

Il romanzo narra, al tempo del Fascismo, la storia tragica di una comunità contadina molisana che, dopo duri sacrifici, riuscì miracolosamente a dissodare, per non morir di fame, la terra incolta, prima di venir cacciata via, senza pietà, dai padroni. Sul campo, contadini in lotta che perirono uccisi senza pietà alcuna. Tra essi il giovane Luca Marano, studente dagli ideali “pane e lavoro”, che convinse la povera gente ad occupare i campi e procedere alla loro coltivazione.

Il commiato delle donne sul corpo del giovane Luca, è sicuramente la più alta e più bella pagina della letteratura di sempre. Jovine la scrisse attingendo alla pratica del “Repuoto Molisano”, ancora eluso nei nostri paesi sino alla fine della seconda guerra Mondiale. Le donne, attorno alla salma, usavano declamare virtù e gesta del defunto, con litanie struggenti e senza pari. 

Un altro amico, grande conoscitore di Francesco Jovine, il prof. Antonio Mucciaccio, ha reso omaggio con uno scritto decisamente sublime.

Jovine trascorse la sua infanzia, in quel di Guardialfiera, tra gente sottile e arguta, tutta piena della saggezza dei proverbi e condannata al suo stato di miseria e di antico abbandono.

Dal suo paese si allontanò a motivo dei suoi studi, fatti tra grandi difficoltà economiche. Tornava a Guardialfiera durante le vacanze e, insieme ai fratelli, aiutava il padre agrimensore a compassare le campagne, oppure si rifugiava nella casa materna, il palazzo Loreto, a leggere i volumi dell’antica libreria. Nel 1934 esce il suo primo romanzo, Un uomo provvisorio.

Il romanzo fu censurato e duramente giudicato dalla critica fascista perché, in un regime che predicava sicurezze e certezze e diffondeva illusioni di grandezza. Lesse con avidità gli scritti di Giuseppe Maria Galanti e di Francesco Longano, allievi di Antonio Genovesi, che sul finire del secolo dei lumi avevano descritto con crudo realismo le condizioni misere delle genti e delle terre del “Contado di Molise”.

Da quando nel 1806 il re Giuseppe Bonaparte aveva abolito il feudalesimo e, con decreto, aveva elevato il Molise da “contado” a “Provincia”, il Molise, come tutto il Mezzogiorno, aveva visto l’assalto alle terre dei demani ex-feudali da parte di una borghesia avida, scaltra e taccagna, che in modi fraudolenti e usurari si era progressivamente appropriata delle terre assegnate ai contadini e aveva ricostituito nuovi latifondi. I contadini ricaddero nelle loro antiche miserie e il Molise mostrò il volto di una terra avara e segreta che secoli di storia non avevano mutato.

Per questo Jovine, nell’estate del 1941, come inviato del Giornale d’Italia, avvicinandosi in treno alla sua terra, scrisse parole di altissima poesia:

“Quando incontreremo le prime ulivelle
magre, solitarie, in bilico sui dirupi,
con i rami stenti, tormentati dalla bufera,
allora saremo in contado di Molise.”        

Terra di “contado”, così Jovine rivede e ritrova il suo Molise. A questo filo conduttore sono legati il romanzo Signora Ava (1942), i racconti Il pastore sepolto e L’impero in provincia (1945) e il romanzo Le terre del Sacramento (1950).

Signora Ava, definito da Carlo Cassola “il più bel romanzo del ‘900”, è una storia corale che si svolge negli ultimi anni del regno borbonico e nei primi anni dell’unità d’Italia. Jovine descrive il piccolo mondo dei contadini, dei galantuomini e dei preti di Guardialfiera. È un mondo visto attraverso i ricordi della fanciullezza, la voce e i racconti del padre, in una nostalgia favolosa, che mostra il volto remoto di una terra e di una gente di antico nome, ma avvolta nell’abbandono e nell’oblio.

Jovine sa cogliere il segreto respiro di questo mondo. Guardialfiera è un paese con un ammasso di casupole di contadini grigie e affumicate, tra le quali spiccano i palazzotti dei galantuomini, come la vecchia e grande casa dei De Risio: Don Giovannino, ex colonnello di Gioacchino Murat nella grande armata di Napoleone, maestro dei figli dei galantuomini dei paesi del circondario e poeta d’occasione; Don Beniamino, arcidiacono vicario, “un prete enorme, detto il signor zio, alto, grasso, solenne, con occhi porcini”; Don Eutichio, scaltro, avaro, taccagno e sfruttatore dei sudori e delle fatiche dei contadini; Don Carlo, grasso, indolente e tardo d’ingegno, diventato medico a stento e tornato da Napoli a Guardialfiera, “come asino in mezzo agli zingari”. Ci sono poi garzoni e serve e c’è don Matteo Tridone, prete povero, estroso e magro, in mezzo ad una schiera di preti grassi e ricchi, che si litigano le rendite ecclesiastiche della soppressa diocesi di Guardialfiera. Vi è il giovane don Stefano Leone, figlio di galantuomini possidenti di Guglionesi e studente di don Giovannino, che si infiamma di un amore chiuso e malinconico per donna Antonietta De Risio, ragazza di delicata bellezza. E vi è il giovane garzone Pietro Veleno, con la sua aria pensosa di contadino povero e rassegnato al suo destino. Attorno a questi personaggi si muove tutta la società di Guardialfiera. Le voci della caduta del regno borbonico e delle imprese di Gariobaldo arrivano e agitano il piccolo mondo di Guardialfiera. I contadini reclamano e occupano le terre, ma i loro moti vengono repressi e soffocati nel sangue dai galantuomini e dalla guardia nazionale. Gli scampati si danno alla macchia e al brigantaggio. Poi, quando tutto passa, ogni cosa ritorna al suo posto, come se niente fosse accaduto.

“Mi auguro che il romanzo – scriveva Francesco Jovine il 18 maggio 1942 in una lettera a Nicola Perrazzelli, con parole che sono poesia- possa contribuire a far conoscere più precisamente il povero ma irresistibile incanto della nostra terra che, tra tutte quelle d’Italia, è la sola forse che conservi integri gli aspetti di una civiltà antichissima, altrove confusi e sommersi dalla civilisation a carattere non indigeno e profondamente repugnante per il mio spirito. Ho voluto rendere il farsesco e il tragico, il rozzo e il raffinato senso della vita che hanno i nostri contadini; ho voluto farli cantare all’unisono con la terra generosa e matrigna e col cielo troppo lontano e irraggiungibile.”

Anche il romanzo Le terre del Sacramento presenta l’atmosfera addormentata di una cittadina di provincia: Calena (Casacalenda, la Kalene di Polibio), con i suoi galantuomini pigri e indolenti, decine di avvocati che trascorrono il tempo in interminabili liti, giovani poveri, ma non incolti, che si dibattono nelle strettoie di una realtà miserabile.

Aspre, corrose dalle frane e cosparse di pietraie, “ci sono ipoteche e fulmini per le terre del Sacramento”, che per i contadini sono terre maledette. “Il Pontefice nel 1867 ha scomunicato tutti gli acquirenti dei beni della Chiesa”.

”Il cavallo indiavolato buttò a terra il padre della capra del diavolo e lo trascinò per duecento metri sui sassi. C’è il sangue del padre della capra del diavolo sulle terre”– diceva Gaudenzio il sacrestano.

“La capra del diavolo” era il soprannome di Enrico Cannavale, avvocato non privo di ingegno e di qualche ambizione politica, ma squattrinato, carico di debiti e tutto dedito ai vizi, al gioco, alle donne. Nella pigrizia e nel disordine, non si cura delle sue terre, che restano abbandonate e ridotte a legnaie e a pascolo abusivo. Ciò fino a quando Enrico Cannavale sposa la sua cugina Laura De Martiis, la quale mette mano con decisione alla ricomposizione e riorganizzazione del patrimonio. In questo immane lavoro chiede l’aiuto e la collaborazione del giovane Luca Marano, per convincere i cafoni di Morutri a lavorare per il risanamento delle terre, con la promessa di contratti di “enfiteusi perpetua”, fino a diventarne proprietari. Luca Marano, figlio di poveri contadini braccianti e mietitori, avviato alla carriera ecclesiastica che presto ha abbandonato per mancanza di vocazione, si mette all’opera, parla ai contadini e ne raccoglie la fiducia. Essi si spargono per le terre, le dissodano a colpi di zappa, estirpano la gramigna e tolgono le pietre.

Ma sulle terre mette i suoi occhi rapaci il barone Santasilia, che se ne assicura la proprietà di gran parte, le migliori, con i soldi prestati a Laura e con la complicità del notaio Iannaccone, costituendo una apposita società, la Sabs (Società Anonima Bonifica Sacramento), “il quaranta per cento delle azioni a Laura Cannavale e marito, il quarantacinque per cento al Credito Meridionale (del barone Santasilia), il quindici per cento al notaio Iannaccone”.

Quando Luca si rende conto dell’inganno, incita i contadini ad occupare e seminare le terre del Sacramento, per farle proprie e ripagarsi delle fatiche e dei sudori spesi per dissodarle e metterle a coltura. Siamo nel 1922 al tempo della marcia su Roma. “È una rivoluzione da ricchi -disse Gesualdo a Luca- Anche qui, a Calena, gli ideali sono vestiti troppo bene e vanno d’accordo con monsignor vescovo. L’altra domenica, quando tu eri a Morutri, Pistalli ha portato i suoi mocciosi inquadrati, alla messa. Hanno fatto il present’arm al Santissimo, col manganello alzato.”

Alla notizia che i cafoni di Morutri hanno occupato le terre, scatta l’allarme. Bisogna ristabilire l’ordine! Carabinieri e squadre di camicie nere con i camion partono da Calena, scendono a Morutri e si dirigono sulle terre del Sacramento. I contadini si difendono con le pietre e con le zappe, ma vengono arrestati e presi a fucilate. In uno di questi scontri viene colpito a morte anche Luca Marano e bagna col suo sangue le terre maledette. Il romanzo si chiude con il lamento funebre che le donne di Morutri sciolgono sul corpo di Luca.

“Quando la notte divenne buia, i vecchi accesero i fuochi alle spalle dei morti. A un tratto Immacolata Marano urlò:

– Luca, oh Luca! – e si mise le mani sul capo dondolando il busto.

– Luca, spada brillante, – gridò una voce giovanile.

– Spada brillante, – ripeterono in coro le altre.

– Stai sulla terra sanguinante.

Via via le donne… piansero e cantarono grande parte della notte, rimandandosi le voci, parlando tra loro con ritmo lungo, promettendo tutto il loro dolore ai morti. La notte era buia e le voci si perdevano sulla terra desolata oltre il circolo di luce che faceva il fuoco, ancora vivo.”

Roma, Focette di Pietrasanta, 1947 – 1950
Antonio Mucciaccio

Ma Jovine non ha seminato curiosità e studi solo nella nostra Regione, nella Nostra Italia.

Egli, per la sua sopraffina scrittura, per il suo elogiar la terra con canti di scritture senza limiti di confine, ha destato interesse all’estero tanto che, un giovane ed illustre scrittore Belga di lingua francese, Jean-Pierre Pisetta, docente di Italiano per traduttori ed interpreti alla Libera Università di Bruxelles, autore in regia, della traduzione in francese della Novella d’Oro di Michele tratta dalla raccolta “ Ladri di galline “ del 1940, pubblicata nell’ottobre 2019 sulla rivista letteraria francese “ Europe”, a cura di due studenti della Scuola per traduttori e interpreti, tali Coralie Gourdnge e Piotr Verrezen , si è incamminato sino a Guardialfiera per incontrare da vicino lo scrittore, le sue genti, i suoi ricordi, la sua amata Guardialfiera. Con lo scritto riportato, manifesta la sua serietà e modestia non mentendo nel dichiararsi felice di esserci stato. Una visita senza condizionamenti e senza una meta ben precisa. Di seguito, il suo fascinoso racconto.

«Quando, alcuni anni fa, mi chiesero – alla Scuola per traduttori dove insegno – di dar vita al Corso di Cultura Italiana, utilizzai il Vademecum sulle 20 regioni italiane, sotto il profilo della loro storia, cucina, geografia, del dialetto, delle bellezze naturali. E, per ogni regione, una rubrica elencava i “personaggi famosi”. Per il Molise, due soli erano stati scelti.

Il primo, Celestino V, lo conoscevo per via dell’accenno dantesco (e, essendomi poi recato ad Isernia, mi accorsi di quanto odiassero Dante nella patria – seppur fugace – di quel Santo Padre). Il secondo – chiedo scusa a tutti i molisani – non l’avevo mai sentito nominare: Francesco Jovine. Era citato per “i suoi romanzi Signora Ava e Le terre del Sacramento che presentano uno spietato affresco delle condizioni di vita nella campagna molisana abbandonata dallo Stato”.

Incuriosito, mi procurai quei due libri che mi hanno a dir poco affascinato, in particolare il meravigliso personaggio del prete in Signora Ava”, don Matteo, accanto al quale il celeberrimo Don Abbondio manzoniano fa proprio pietà col sua pavido “quieto vivere”.

Poi, essendo amante, nonché modesto scrittore di racconti, ho letto quelli di Jovine e mi ha colpito soprattutto il suo modo di finirli – o di non finirli – o di lasciarli aperti alla fantasia del lettore.Penso di aver acquistato e letto gran parte delle sue opere, dal primo romanzo Berlué (bellissimo libro per ragazzi del 1929 ma, a mio parere, libro problematico, per lo sguardo forse non abbastanza critico verso le camicie nere della storia) fin alle ultime Terre del sacramento.

Quando scoprii il suo Viaggio nel Molise, mi venne l’idea di tradurlo in francese e cercare di farlo pubblicare in Belgio – dove sono nato e vivo – o in Francia (impresa non ancora andata in porto). Nell’estate 2017, lasciando moglie e figli in ferie estive su in Piemonte, presi il treno per Termoli, e cominciai così a visitare i posti tratteggiati da Jovine negli 11 articoli del suo “Viaggio” attuato nel 1941.Da Termoli, la mia prima tappa fu Guardialfiera, paese nativo di Jovine. Vi fui accolto dalla affabile conduttrice dell’unico – se non sbaglio – bed and breakfast del posto, che ben parlava francese, essendo vissuta per lungo tempo in Belgio.

Fu lei a presentarmi Vincenzo di Sabato ritenendolo il grande conoscitore di Jovine in paese, e tale s’è rivelato nella realtà. Egli mi condusse in un museo, reconditorio di eccezionali e lontane civiltà locale e memorie di Jovine a Guardialfiera e di tutti i suoi libri, molti anche tradotti in lingue diverse.

Ma, al di là degli oggetti che ricordavano lo scrittore, fui lieto di scoprire i lineamenti dell’ “uomo Jovine” con Vincenzo di Sabato. E, fra le tante altre particolarità, seppi che sua madre l’aveva avuto come maestro di scuola: il primo mestiere del futuro scrittore, dopo essersi laureato al Magistero di Roma. E mi offrì, infine, l’indirizzo della sua abitazione a Guardia.

Non mi ci portò di persona perché, in quel momento era pieno meriggio e faceva un caldo tropicale. Mi ci recai più tardi nella giornata. E, nel fiabesco scenario di “Piedicastello”, cuore di questo paesello antico, trovai la sua abitazione nobile e modesta. E potei leggere sulla faccia, nell’atrio, una lapide molto bella che sintetizza in pieno il contributo alle lettere italiane sprigionato dalla passione per la sua terra: “Nel centenario e nel luogo della sua nascita, i Rotary Club di Agnone e Larino ricordano Francesco Jovine, che del Biferno, trasfigurato in sacramento, fece maestoso affluente della letteratura italiana”.

Così finì il mio breve soggiorno a Guardialfiera. Di lì ho proseguito, con il Viaggio nel Molise di Jovine in mano, adeguandolo ad un semplice quaderno durante le soste del mio “Grand Tour”. Di un percorso in quell’antica terra della quale ho riportato in Belgio, pensieri deliziosi, nobilitati ancor più da parole pronunciate a Isernia da una signora, che lavorando all’uncinetto, sorvegliava gratuitamente la Sala di un museo: “C’è lavoro da voi in Belgio”? Mi chiese. “Beh, un po’ come dappertutto” risposi. “I tempi sono duri”. “Sì” fece lei, “ma qui mi sa che siamo messi ancora più male che da voi. Mah! – concluse – almeno noi abbiamo la gentilezza”.

La gentilezza, infatti, è stata l’attrattiva da me notata, durante il mio “Viaggio nel Molise”. Questa sì che nei tempi duri è una ricchezza!

Jean-Pierre Pisetta

Dopo questo atto d’amore di Jean- Pierre è l’ora di assumere la conclusione di un racconto a più mani senza eguali per intensità e vigore letterario, nel ripercorrere questi settanta anni senza il ns amato scrittore / poeta per eccellenza. Non potevamo che farlo con l’augurio di una sana e responsabile azione della politica, della scuola tutta e di tutti noi Molisani nel riappropriarci di racconti di vita che emano freschezza, solidarietà, vita vissuta e tanta bellezza.

Che Jovine perdoni per averlo trascurato e che, la sua lunga mano scenda sino al suo Molise per un docile e senza tempo riappropriarci delle sue mirabili righe, dal sapore di un calamaio ormai senza più inchiostro.

Con le premesse di un Viaggio senza tempo nell’essere decisamente romantici nel declamare l’infinita bellezza e la tradizione più vera di un Molise dall’afflato mai demagogico, chiudiamo gli occhi e rinfranchiamoci di poesia. 

Tutto ciò, l’interesse per un narratore, scrittore, giornalista Molisano ha rigenerato

l’idea di tornare a parlare di poesia, di narrativa, di letteratura più vera. Così nasce il Parco Letterario e del Paesaggio ad egli intitolato. Dall’aggregante prospettiva di due Centri studi: Guardialfiera ed Agnone, dall’iniziativa di illuminati personaggi dediti alla cultura da decenni nell’anno della liberalità da diritti d’autore, torna prepotentemente dominante la figura di un girovago scrittore che del Molise canta con la musica del cuore le bellezze, le tradizioni, la gente di un Molise cafone ( legato da una fune ) che della fedeltà e della nobiltà d’animo ne fa Bandiera. Due Comuni : Guardialfiera ed Agnone al centro e il Molise che gira intorno ad un Mondo che cantando la ritrovata Felicità, anche grazie ad un Assessorato Regionale al Turismo e Cultura, si riappropria della propria bellezza. Lottiamo contro finti superministeri che nascondono transizioni energetiche depauperando ambiente e paesaggio, contro associazioni servili ad un sistema non più consono alla salvaguardia dell’ambiente e con la letteratura che ci porta a viaggiare e riscoprire il paesaggio, vinceremo ogni battaglia che all’apparenza possa sembrare inutile ed impari. Golia “Cultura” ne uscirà vincitore e con egli, tutti noi.

 

Libero Bigiaretti, Roma, 3 maggio 1950