L’antropologia moderna ha trovato nella Gran Bretagna vittoriana del secolo 19° una situazione economico-sociale e scientifico-culturale particolarmente favorevole per affermarsi ed essere riconosciuta come scienza dalle istituzioni e dai circoli accademici inglesi; tuttavia, è noto che alcuni suoi presupposti teorici si fondano nel Settecento illuministico francese con gli interessi rivolti ai progressi raggiunti dalla «ragione». Esiti concreti di tali interessi sono stati l’impegno culturale e scientifico dell’Encyclopédie e, per esempio, l’istituzione a Parigi, nel 1799, ad opera di Louis-François Jauffret, della Société des Observateurs de l’homme, impegnata a documentare l’uguaglianza di tutti gli uomini in natura e a proporre una visione ottimistica del loro costante progresso. Una problematica questa ripresa e sviluppata nell’Ottocento in Inghilterra, in ambito naturalistico, dall’evoluzionismo di Charles Robert Darwin con le note opere Origine delle specie per selezione naturale del 1859 e Le variazioni degli animali e delle piante del 1868 ed, inoltre, in ambito sociologico da Herbert Spencer con il lavoro I primi principi, nel quale l’evoluzione è intesa come un passaggio graduale dall’omogeneo all’eterogeneo, dall’indeterminato al determinato, realizzato per via di successive differenziazioni ed integrazioni.
Nel contesto culturale illuministico, inoltre, fu elaborata la nozione di «selvaggi» per definire le popolazioni extraeuropee colonizzate, nelle quali tuttavia veniva messa in risalto come positiva la loro condizione di natura; per esempio, nel pensiero di Jean-Jacque Rouseau, la definizione di «buon selvaggio» considera l’uomo così come si riteneva avesse vissuto nello stato naturale in contrapposizione allo stato di «civilizzato», nel quale era riscontrabile le degenerazione prodotta dalla cultura. Infine, dalla parte del versante dell’evoluzionismo darwiniano, l’archeologo naturalista Johon Lubbock in Prehistoric Times, nel 1865 perfezionava la nozione di «primitivi», sviluppando un’intuizione dell’archeologo danese Sven Nilson, secondo il quale la vita delle popolazioni preistoriche dell’Europa poteva essere paragonata a quella dei «selvaggi primitivi» contemporanei che vivevano nei paesi coloniali.
In questa atmosfera culturale si collocava la visione ottimistica sul progresso raggiunto in Europa dalla Gran Bretagna che, nella seconda metà dell’Ottocento, era diventata la maggiore potenza industriale, militare e coloniale. Tra i secoli 18° e 19°, sebbene in America avesse perso la vasta area degli Stati Uniti, si era impadronita dell’India, aveva esteso il proprio controllo coloniale in Africa, in Medio Oriente, nel Sudest asiatico, in Australia e in Nuova Zelanda; inoltre, riusciva ad imporre i propri indirizzi commerciali al vasto impero cinese. Era quindi necessario giustificare questa espansione proponendola come un’esportazione di “civiltà” che gli Inglesi offrivano ai popoli “primitivi” delle colonie. L’indirizzo politico-amministrativo, quindi, fu quello di esportare in quei paesi, nel più breve tempo, le forme commerciali ed economiche di produzione del capitalismo liberale inglese, travolgendo così i sistemi di produzione indigeni e provocando di fatto gravi ripercussioni sociali. Per contro, in Gran Bretagna, l’aristocrazia liberale e la borghesia imprenditoriale, con una serie di provvedimenti che puntavano all’espansione della base del mercato nazionale, avevano innalzato le condizioni economiche, sociali e culturali dei ceti popolari, grazie all’aumento dei salari, al riconoscimento dei diritti soprattutto dei lavoratori dell’industria, all’estensione del suffragio universale (sebbene limitato ai soli uomini) e alla diffusione della scolarizzazione per estirpare l’analfabetismo.
Questa proiezione dell’Inghilterra del secolo 19° verso un’ottimistica visione del progresso era confortata e convalidata dagli sviluppi nel campo scientifico e tecnologico nel cui contesto si collocavano i perfezionamenti del motore a vapore, prima, e quello elettrico, poi, gli studi e le relative conoscenze in campo microbiologico e sanitario orientati ad affrontare diverse patologie fino ad allora considerate incurabili.
Nel quadro economico-polico-culturale fin qui sintetizzato, Edward Bernett Tylor definì l’antropologia «la scienza del riformatore» in quanto poteva fornire un utile contributo in favore di riforme sociali, politiche e culturali.
È opportuno precisare, però, che questa definizione la diede dopo il 1896 quando ormai ricopriva ad Oxford la prima cattedra di Antropologia culturale, sebbene da giovane le fosse stato precluso l’accesso all’università, essendo di religione quacchero e per questo motivo considerato non in condizione di superare la prova di ortodossia religiosa allora richiesta per l’ammissione.
Dopo una prima formazione nella scuola di Grove House, a Tottenham, finanziata e governata dalla Society of Friends dei quaccheri, essendo di famiglia di benestanti industriali, a sedici anni cominciò a lavorare nell’azienda famigliare, mantenendo però un certo interesse per gli studi, soprattutto dopo un grave esaurimento fisico che lo costrinse ad abbandonare il lavoro. Nella primavera del 1856, in un viaggio che fece a Cuba per migliorare la sua salute, conobbe il paletnologo Henry Christy anch’egli quacchero che lo invitò ad andare con lui in Messico dove si proponeva di compiere scavi archeologici. Questo viaggio messicano, durato circa sei mesi, è stato per Tylor una tappa importante per i successivi suoi interessi etnologici; infatti, in Messico iniziò a studiare le usanze e delle tradizioni delle popolazioni indigene con le quali entrava in contatto.
Rientrato dal Messico Tylor ha continuato a viaggiare a lungo visitando numerosi paesi europei. Questo periodo costituisce una fase importante per la sua formazione antropologica, in quanto ha contribuito a perfezionare interessi di ricerca e a definire gli orizzonti scientifici degli studi che intendeva perseguire. In tale contesto di formazione, nel 1961, pubblicava il suo primo lavoro Anhuac, or Mexico and the Mexicans: una sorta di diario del viaggio in Messico; nel lavoro, tuttavia, si possono intravedere le fondamentali linee del suo pensiero antropologico, ovvero, come, fin da allora, egli riuscisse a cogliere le direttrici culturali evoluzionistiche che, nella metà dell’Ottocento, permeavano la ricerca scientifica britannica.
Si deve precisare però che la prima vera opera antropologica di Tylor è Researches into the Early History of Mankind and Development of Civilisation, pubblicata nel 1865; in essa sono compendiati i fondamenti teorico-metodologici che ne caratterizzano il pensiero: l’applicabilità del metodo positivo alle discipline antropologiche tramite la comparazione dei dati riscontati nelle diverse culture, il presupposto che la mente umana fosse basilarmente affine sempre e in tutti luoghi e che ci fosse stata una comune grande antichità dell’uomo primitivo preistorico, le cui forme di vita avrebbero rappresentato un primo stadio di sviluppo proseguito, poi, in modo unilineare e progressivo, comparabile, in parte, a quello in cui, nell’Ottocento, si trovavano le popolazioni primitive considerate selvagge. Questi principi di base furono poi sviluppati in Primitive Culture, opera apparsa nel 1871 con grande risonanza negli ambienti intellettuali britannici. Infatti, tale lavoro contribuì all’elezione di Tylor a membro della Royal Society e, quindi, all’inizio di una brillante carriera accademica con la nomina di reader presso le università di Aberdeen ed Oxford, dove, come si è già accennato, nel 1996 divenne professore di Antropologia culturale e dove, nel 1905, fu istituito il primo diploma di laurea con la denominazione di questa disciplina. All’importante scuola di Tylor ad Oxford, inoltre, si sono formati illustri studiosi fra i quali James Gorge Frazer, Robert Marrett ed Andrew Lang. In sostanza, nell’arco di qualche decennio, egli divenne il referente internazionale più prestigioso per quanto riguarda le indagini e gli studi antropologici.
A metà del 19°, quando nel 1861 apparve Anahuac, Edward Bernett Tylor è pienamente integrato negli ambienti culturali inglesi; egli si inseriva nelle teorie e nei dibattiti portati avanti da intellettuali di frontiera come Jeremiah Bentham, Clerk-Maxwel, Darwin, Spencer, Johon Stuart Mill e Sumner Maine. Il contesto economico e politico sociale era quello che aveva consentito alla Gran Bretagna di realizzare nel 1851 in Hyde Park la Grande Esposizione alla quale partecipò anche la ditta Tylor & Sons. È necessario precisare, tuttavia, che Tylor acquistò particolare notorietà, come si è detto prima, con la pubblicazione nel 1871 di Primitive Culture, dove attraverso lo studio dello sviluppo delle idee religiose che sarebbero passate dallo «stadio» primitivo o magico a quello «razionale» o religioso egli riuscì a dimostrare la nozione o «concetto» di cultura in senso sociale ed universale: cioè, la cultura in quanto prodotto degli uomini, nel loro essere membri di una qualsiasi società, in una qualsiasi realtà storica e ambientale è un dato e un fatto oggettivo riscontrabile in tutti i contesti. Pertanto, secondo Tylor non esistono popoli privi di cultura; inoltre, ogni cultura è un «insieme complesso» che nel quale il popolo che autonomamente lo ha elaborato ha stabilito un particolare sistema produttivo ed economico, specifici principi morali e giuridici per il vivere sociale, ha inventato adeguati strumenti e tecnologie per il lavoro. Questo patrimonio culturale, infine, è acquisito e trasmesso di generazione in generazione tramite i sistemi educativi che ogni cultura elabora; quindi, la cultura non è connaturata per razza o trasmessa col sangue, come invece allora ritenevano i creazionisti; essa sarebbe un patrimonio ottenuto cumulativamente e ulteriormente incrementabile. Da qui derivava la giustificazione del processo evolutivo al quale sarebbero soggetti i popoli nel passare dallo stadio primitivo e irrazionale a quello della «civiltà» e della ragione.
L’antropologia, quindi, secondo Tylor, avrebbe il compito di ricostruire, studiando i dati delle popolazioni primitive, selvagge e barbare, le sequenze o stadi di sviluppo e di progresso percorsi dall’umanità nella sua storia. Questa analisi era possibile estrapolando dalle diverse culture singoli elementi in esse compresenti per confrontare i rispettivi differenti percorsi evolutivi. In tale approccio, quindi, così come era diffuso tra gli intellettuali dell’Ottocento, egli riteneva che esistessero popoli «inferiori» e popoli «superiori» per stadio culturale, nel senso che, essendo unica la storia del genere umano poteva essere rappresentata con un digramma espresso da una linea ascendente il cui punto di partenza era lo stadio primitivo della preistoria dell’umanità, riscontrabile in tutte le culture; infatti, essa costituirebbe l’avvio delle forme di organizzazione sociale più semplici dalle quali si arriverebbe a quelle più complesse. A questo riguardo, per esempio, egli affermava che «la civiltà può essere considerata come un miglioramento generale dell’umanità per mezzo di una più alta organizzazione dell’individuo e della società al fine di promuovere la bontà, il potere e la felicità dell’uomo» (Tylor 1920, p. 27). Questa considerazione contiene in sé i temi dominanti dell’ideologia antropologica vittoriana: la civiltà concepita come risultato di un processo cumulativo; il progresso evolutivo inteso sulla base di una crescente complessità organizzativa; l’idea della vita sociale considerata come mezzo atto a promuovere il progresso e quindi il benessere e la felicità di tutti gli uomini. In sostanza, emerge, come si è già accennato, una concezione ottimistica del progresso che consente di legittimare come positiva l’esportazione della «civiltà» dall’Inghilterra verso i paesi colonizzati, come per esempio l’India vedica e delle caste sociali.
Il primato scientifico dell’Antropologia, inoltre, secondo Tylor, si affermava in quanto consentiva di capire la contemporaneità tenendo presente i dati culturali ricavati dallo studio degli stadi evolutivi precedenti. Nel manuale divulgativo intitolato Anthropology, pubblicato nel 1881, egli al riguardo sostiene che «le tribù selvagge e barbare rappresentano più o meno gli stadi culturali attraverso i quali sono passati tanto tempo fa i nostri progenitori … I loro costumi e le loro leggi spesso ci spiegano, in modo che altrimenti ci sarebbe difficile concepire, il senso e le cause profonde dei nostri» (Tylor 1881, p. 401). In pratica, la «scienza delle società primitive» costituiva una sorta di grimaldello per capire la «civiltà» dell’umanità contemporanea, nella quale quella della Gran Bretagna vittoriana nel secolo 19° aveva raggiunto il vertice.
Intanto, dopo aver constatato che la grande battaglia in favore dell’analisi evoluzionistica sull’origine e lo sviluppo culturale dell’umanità fosse definitivamente vinta e come fosse giunto il momento che altri rivisitassero gli indirizzi teorico-metodologici dell’antropologia, nel 1909 Tylor lasciò l’insegnamento universitario; nel 1917 morì a Wellington mentre era occupato ad una revisione delle teorie e dei metodi dell’antropologia che aveva fondato.