Il magico mondo dell’uomo cervo - Gl’ cierv

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Il Mondo sta fuggendo verso un lido sconosciuto. La pandemia sta creando diverse posizioni ideologiche che minano il vivere comune, la stabilità di relazioni che da secoli sono il frutto di alberi, mai piegati al vento. Si confonde l’essere al dover essere e mai come adesso le tradizioni, i riti aggreganti, pieni di significato, sono la panacea per tornare a goder il sereno ed a vivere, non nel ricordo, ma con esso poiché, l’antico, non ha mai distrutto ed ha sempre coltivato il “Bene”. Questa premessa ci riconduce ad una riflessione seria, compita, lungimirante e mai banale. Ci consegna un mondo che va riscoperto ad occhi chiusi e, lo faremo iniziando da una tradizione che sa di saggezza, di profonda riflessione. Lo faremo vivendo insieme un rito unico nel suo genere. Un rito che desta attenzione internazionale e che di suggestioni ne regala sino a sfinir ogni male del Mondo. Chiudiamo gli occhi, ascoltiamo i campanacci e godiamoci l’ancestrale rito dell’«UOMO CERVO», ci risveglieremo con il sorriso e, saremo decisamente migliori.

La paura di non riuscire a dominare il mondo, “Casa“ dell’essere umano, ci porta da sempre a cercar di ammansire le forze della natura, con la consapevolezza che ciò è praticamente impossibile, se non con la fantasia, con l’uso di riti che da sempre e sino ad oggi conservano il fascino di una consapevole inferiorità umana nei confronti di chi ci ospita nel passaggio dalla vita alla morte.

Nascondersi con travestimenti più o meno animaleschi: orsi, cervi, capre; l’uso delle mantelle, delle pellicce; porsi al collo e non solo, campanacci, sonagli di ogni genere; con la credulità di sovvertire il cammino lento ed inesorabile di un mondo che gira, che mai potrà fermarsi, se non al cospetto della fantasia, dell’immaginaria forza dell’uomo.

Ed è subito scena, suggestione, sogno destato dalla mistificazione della verità sino a diventar anello tra il passato ed il presente e render indissolubile l’uomo dalla tradizione più vera, dal significato della vita terrena in conflitto con la vita del mondo che ci circonda e che ci rende esseri inferiori, esseri dipendenti dalla natura e da chi di essa ne è l’assoluto padrone: il tempo!

E così, ci si maschera, ci si rende sembianti di forze che favoriscono il benessere della comunità, ci si immedesima in forze ed energie dal potere del profitto per l’essere umano.

Si combatte il malessere per ricondurre tutto a quel patto con il mondo che genera la vita e che della stessa ne è padrone.

Le maschere ed i riti prendono il sopravvento ed il Molise con una gran parte del mondo intero, vive di tali manifestazioni. Più o meno antiche, più o meno ancora del tempo che fu, il Molise ha nella maschera rituale dell’uomo cervo, o meglio de “Gl’Cierv”, uno dei riti più suggestivi, più “veri “ che, da tempo immemore, si ripete l’ultima domenica di carnevale a Castelnuovo al Volturno, frazione di Rocchetta al Volturno. 

L’unica piazza del piccolo borgo Molisano, ammantato dalla cornice delle Mainarde, diventa palcoscenico di una pantomima che ha del fiabesco e nello stesso momento del tragico vissuto di un popolo ameno alle profondità della civiltà “evoluta”.

La morte per rigenerare vita, l’eterno contrasto dell’essere umano con se stesso, l’eterna paura per una natura che vince sempre sull’uomo e, la cruenta essenza della natura che costringe l’essere umano ad esserne succube.

Le essenze di un rito che ha della magia oscura, penetrante, spesso portatrice di brividi e manipolante timore di non sopportar la morte se non per la sola forza rigeneratrice che, compensa le tenebre, rende l’infelicità sopportabile.

Il Cervo, il Martino, il Cacciatore, la Cerva, le Janare, il Maone, i personaggi che animano le scene tra gemiti, urla, rumori e tanta voglia di coinvolgersi ad essa, estraniandosi dal mondo esterno che per qualche attimo diventa buio, senza un perché, senza amore. Il Cervo, personaggio chiave della rappresentazione, coperto di pelli di capra, dalla pelle colorata di nero, dalle corna enormi, si contorce, corre, salta, si fa largo con la forza del rumoreggiar dei campanacci, distruttrice e da “animale feroce” senza anima e dal cuore duro come una roccia, si vede lì controbattere da Martino, un personaggio quasi candido, vestito da pulcinella con ai piedi le ciocie, calzature dei pastori dell’epoca.

Simboleggiando il bene sconfiggerà il male servendosi di un bastone ed una corda, catturando il Cervo e la Cerva, ponendo facoltà al cacciatore di uccidere entrambi gli animali ridandone però, con un’alitata di vento, nuova vita e rendendo felicità e tranquillità alla comunità, sino al tempo del tutto impaurita e piena di orrido sconforto. Il tutto nell’inquietante corografia rappresentata dalle streghe, le cosiddette Janare.

Orribili fuori, bellissime dentro, dai lungi capelli, urlanti nell’eseguire il loro rito attorno ad un falò che, annunciate dal Maone, altro elemento orribile, cadenzano la loro tribale esibizione al suono insistente ed ulteriormente inquietante di tamburi.

Non è semplice donar la vita se non estirpata, al sol fine del bene collettivo.

L’animale sacro, il rinnovo del ciclo ed il risveglio, con l’assecondar delle fertilità, della longevità, della luce, della prudenza e della spiritualità, il Cervo lo si considera ambivalente: satanico ed anti demoniaco; solare e plutonico; vita e morte. Così come del resto è l’uomo. Razionale nell’irrazionalità, vivo nel contesto mortale di un mondo non più a passo con l’ideologia ferma, morto in un mondo che gira troppo in fretta per poter prender la strada della ragione.

Ragione, senza essere più ragionevoli con gli altri e con se stessi.

Ed allora ci si nasconde, ci si immedesima in mondi paralleli servendosi di esseri a noi vicini ma fuori dalla logica vitale strettamente connessa con la ragione dell’uomo.

Il Cervo, nel caso di specie, ma l’animale in genere, poiché libero ma estraneo alle regole dell’uomo, protagonista dell’ambiente esterno ma sempre relegato ad essere animale e non pensante e, quindi, simbolo a tempo ed a seconda la consapevole dimensione umana in ordine di luogo, di spazio e di tempo. Le corna come alberi della vita.

Cadono e rinascono senza un perché plausibile ma inopinabilmente cicli di vita che ispirati a spiriti sovraumani trasformano il male in bene e magra in fecondità. Non a caso l’uomo cerca sempre di nascondersi e trovar posti dove la natura sia più aggraziante, dove essa coccola e non sopprime, dove la vita scorre come un fiume in quiete e non arringa voracità e flutti.

La maschera è così la metafora di noi stessi che, nel porsi alla vita esterna nella propria dimensione umana, necessita di un cambio continuo, di una rigenerazione strumentale che nasconde debolezze, scomode verità e grandi paure, cause di fallimenti e di egocentrismi generatrici di solitudine e di rudezza di rapporti.

L’essere considerati simili non corrisponde a chi della maschera ne fa uso costante con espressioni sempre diverse, sempre ambigue, sempre al di sopra di ogni verità e questo, ha generato nel tempo una sorta di rivincita con le maschere quali tali oggetti.

Oggi ci mascheriamo con sorrisi, false retrospettive buoniste e, conformandoci in negativo ai riti di un tempo che nell’immaginario sono lo specchio di una realtà da secoli dell’uomo inferiore che, non ne esce vittorioso, ma ancora sconfitto e senza alternative e speranze di ulteriori rivincite. La vita Vince sempre e l’uomo è lì, come da sempre, a distruggerla.

Impariamo ad esser consapevoli che il male siamo noi e forse, dopo aver vissuto il rito dell’uomo cervo, gettando la maschera al fuoco, potremmo riconquistare l’essere uomini, l’esser “esseri” superiori.