La predica del vino. Tracce di una tradizione quasi perduta intorno alla festività di San Martino

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A novembre, in campagna, parlare della celebrazione di San Martino l’undicesimo giorno del mese, equivale ancora ad associare la festa del Santo all’assaggio del vino nuovo. Non solo in quella data ma nei giorni che precedono e seguono il rituale cristiano dalle botti si spilla il liquido prezioso per fare festa ed esaltare le capacità della vinificazione. Oggi molte piccole cantine restano in silenzio; le vigne, quando lavorate, non servono al raccolto della famiglia ma l’uva viene venduta a cantinieri più organizzati. Il numero di coloro che procedono singolarmente a lavorare i propri frutti dopo la vendemmia è sempre più esiguo. Resta però nel ricordo il periodo della vendemmia e della spremitura dell’uva, in Abruzzo sono moltissime le sagre storiche che celebrano questo importante rito.

Il tempo di San Martino è un richiamo all’abbondanza, certo direttamente proporzionale ai numerosi acini che la pianta produce. Resta infatti nel dialetto, mutuando anche tanti detti popolari raccolti da Gennaro Finamore, la frase “Ce sta lu sante Martine” per simbolizzare il concetto di gran quantità che si utilizza, ancora oggi, quando si intende sottolineare riferimenti riguardo a un gran numero di pietanze o di bevande o a oggetti di uso domestico che si presentano a chi descrive un pranzo o una casa molto arredata. “Sande Martine!” era il saluto cordiale che si faceva quando una donna impastava la farina per il pane o quando si incontrava una donna gravida, nell’esemplificazione di un impasto che lievita e cresce così come il ventre della donna.

Si salutava allo stessa maniera anche il mosto che, ribollendo nelle botti, cresceva e si tramutava in vino. Finamore ci suggerisce un racconto popolare che raccolse a Campli, in provincia di Teramo, negli ultimi anni del 1800 e che prova stretti rapporti del Santo con il vino: Perché usa spillare le botti nel dì di s. Martino? - «Inseguito dai nemici, s. Martino cercò ricovero nella casa di un contadino. Questo buon uomo, non avendo dove meglio, lo fece nascondere in una botte vuota. Arrivati, gli sbirri lo cercarono anche in cantina; ma trovarono che tutte le botti, vuote da tanti anni, erano piene. Peggio per le botti! Bevvero, bevvero tanto, che caddero briachi fradici, e il santo, senza molestia alcuna, potè andare pe’ fatti suoi. Ecco perché s. Martino è protettore del vino e nel dì della sua festa si spillano le botti». Come si diceva, la vinificazione familiare oggi è praticata in modo minore nei piccoli borghi e presso poche famiglie a favore della vendita dell’uva ad aziende più grandi.

In alcune località dell’Abruzzo teramano era abitudine, nel periodo intorno alla festa di San Martino, di attuare “lu predcà” cioè il predicare. Consisteva nell’assaggiare il mosto di vino nuovo direttamente dalle botti o, in tempi più moderni, anche dalle damigiane di vetro.

I ricordi carichi di nostalgia di un tempo passato riaffiorano nelle parole di chi ho intervistato perché ha vissuto in prima persona la vendemmia di un tempo e la predica del vino. Nonni e padri pigiavano l’uva nella cantina prima con l’antica tradizione della pigiatura con i piedi, poi con la pigiatrice elettrica. Il mosto che usciva dal torchi si travasava, una volta, con la classica conca di rame e i mi tornano alla mente i versi del caro Luigi che recitano: … dal fondo s’udiva delle cantine / la voce roca dei vignaroli ebbri / dell’esalare tenero del mosto, / nel battito dei torchi martoriati.

Tanta fatica e tanta allegria e tanta premura perché il vino era un tesoro per tutto l’anno, nonni e padri lo trattavano con cura, quasi fosse un bambino da curare, se il tempo era particolarmente freddo si teneva un braciere acceso nella cantina per mantenere equilibrato il calore per la fermentazione. Gli anziani soprattutto, in quel periodo, vivevano più in cantina che nella casa e quando a sera si ritiravano erano sempre un po’ alticci perché gli assaggi erano stati molti nella giornata e la lingua si scioglieva in modo veloce, la voce diventava roca…insomma si predicava.

Le donne, in casa, accortesi della situazione che diveniva spesso pesante rimproveravano gli uomini con frasi che, tradotte in italiano dal dialetto recitavano:- Hai predicato (bevuto) tutto il giorno adesso devi predicare (parlare in modo sconnesso e ripetitivo) anche qui?- Certamente l’azione dei predicare si riferisce alla loquacità data dall’ebbrezza che si connette al rumore stesso “del ribbolir dei tini”. Il mosto bolliva sprigionando effluvi alcolici con un rumore ripetitivo simile al predicare del cantiniere. Solitamente il rito de “lu predcà” non avveniva in solitudine, il bello era quando si poteva fare in compagnia, quando ci si riuniva in cantina insieme ai vicini di casa, scambiandosi le visite nelle rispettive cantine con scansione giornaliera.

La “predicata” era una tradizione da rispettare, un rito antico di celebrazione del vino. Restano nei ricordi quei momenti nei quali i nipoti erano iniziati al rito: la cantina era inebriata dall’odore dolciastro, l’atmosfera calda e rassicurante cadenzata dal rumore tipico del mosto in ebollizione; erano gli stessi padri che, imponendo un momento di silenzio, guidavano i giovani all’ascolto del vino, del suo borbottio, invitandoli ad avvicinare l’orecchio alle botti.

Gli anziani avevano confezionato delle cannule lavorando una canna sottile e le offrivano orgogliosi ai più giovani che, da neofiti, seguivano passo per passo il cerimoniale. Si saliva su una scaletta appositamente realizzata per avvicinarsi alla bocca delle botti e, immersa la cannula, si assaggiava.

Sul liquido galleggiavano ancora semi e acini e le bolle del mosto producevano leggeri schizzi sul volti chini sull’apertura della botte. “Lu predcà” era anche funzionale alle esigue condizioni economiche che, spesso, contraddistinguevano le famiglie di campagna in alcuni periodi dell’anno.

Le usanze di cortesia prevedevano l’offerta di qualcosa da mangiare o da bere nel momento in cui qualcuno passava a fare visita in casa e, se non vi era possibilità di tenere in casa dolci o liquori e il vino non era pronto da offrire nella brocca sulla tavola, si invitava l’ospite a passare in cantina per una predicata.

Il contadino, per non restare mai senza vino, vendemmiava subito la prima uva matura, quella bianca, e ne faceva un vinello leggero che si poteva bere prima e si produceva così il vino novello per San Martino che apriva i riti della predicata. Tracce di un’usanza tradizionale si riverberano, ancora oggi, in alcune case private nell’Abruzzo teramano per continuare e non far tramontare gesti antichi e identitari.