Lavarsi le mani e il suo valore simbolico

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«Ed egli disse: “Ma che male ha fatto?”. Essi allora gridavano più forte: “Sia crocifisso!”. Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto aumentava, prese dell’acqua e si lavò le mani davanti alla folla, dicendo: “Non sono responsabile di questo sangue. Pensateci voi!”. E tutto il popolo rispose: “Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli”. Allora rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso». Così nella narrazione neotestamentaria di Matteo.

Dai numerosi tentativi di Ponzio Pilato - che la Chiesa puntualmente ci ricorda ogni anno nell’arco della Settimana Santa -, pur nella sua pavidità, di non condannare a morte il Salvatore, discendono, contemporaneamente e contraddittoriamente, sia il riconoscimento di non voler condannare un innocente, di salvare un “Giusto”, sia un giudizio nettamente negativo per questo suo non voler prendere posizione, non volersi schierare. La sua inerzia di fronte alla responsabilità di una scelta è apparsa talmente emblematica da giustificare l’espressione - per chi non è né carne né pesce, per chi non vuole o non può schierarsi da una parte o dall’altra -, l’espressione «lavarsi le mani come Ponzio Pilato», divenuta così metafora di un’indifferenza colpevole. Nella teologia cattolica l’ignavia o accidia costituisce uno dei sette peccati capitali; Dante riserva alle anime degli ignavi il posto nell’Antinferno perché, ritiene, non meritano di entrare nemmeno nell’Inferno.

Vorrei sviluppare, a questo punto, due ordini di considerazioni. Il primo attiene al valore dell’acqua. Questa ha sempre avuto un forte valore simbolico. Il Giardino dell’Eden è colmo di bellezze atte a deliziare lo sguardo e lo spirito: laghetti e fontane zampillanti esaltano l’acqua, simbolo di trasparenza, di purezza, di lealtà, di bellezza. Papi e regnanti hanno testimoniato la loro generosità e il loro legame affettuoso con le città da loro governate commissionando a famosi architetti monumenti dai quali zampillasse copiosa la benefica e ristoratrice acqua. Penso, per tutte, alle tre fontane di piazza Navona a Roma, quella “del Moro” e “del Nettuno” e, quella più imponente, stupenda opera del Bernini: settembre/ottobre 2018 ? 29 la “Fontana dei Quattro fiumi”. Come non ricordare che, nella piazza Navona dei Papi, questa veniva periodicamente inondata dall’acqua, per il nuoto e per le “naumachie” (battaglia navale), fino all’abolizione da parte di Innocenzo X, per ragioni igieniche. Per continuare in questa sintetica rassegna, sempre a Roma vorrei ricordare la deliziosa Fontana delle Tartarughe di piazza Mattei, a cui lavorarono tra Cinque e Seicento più architetti, tra i quali Giacomo Della Porta e Gian Lorenzo Bernini; essa è quasi completamente chiusa da alti palazzi nobiliari. Su un basamento quadrato, degli efebi spingono delle tartarughe ad abbeverarsi ad una vasca sovrastante da cui deborda acqua che cade al di sotto. Né può essere taciuta la Fontana di Trevi, resa ancora più celebre dal bagno di una sontuosa e bellissima Anita Ekberg, quale ci viene presentata nell’opera felliniana.

Nel Lazio poi, i giardini di Villa d’Este di Tivoli, sono il trionfo dell’acqua, che erompe in zampilli, sgorga, scende a cascate e alimenta anche un organo (la “Fontana dell’organo idraulico”), sparge refrigerio e frescura sui visitatori. Il trionfo dell’acqua è anche quello degli zampilli che erompono dal suolo dei giardini annessi alla vanvitelliana Reggia di Caserta dei Borboni. Pensando ad altre piazze e ad altre fontane e al loro variegato uso, ricordo, la recente inaugurazione in piazza Liberty a Milano, del nuovo Apple Store, disegnato da Norman Foster, che ha rivoluzionato la piazza; su di essa domina la scenografica cascata d’acqua, parallelepipedo di vetro che si staglia contro il cielo con il logo sul lato. Si può ricordare anche piazza Gae Aulenti, con le sue fontane provviste di giochi d’acqua, luce e musica, con la possibilità di camminare nell’acqua. In altro Paese si può pensare a City Life, avveniristico quartiere fra piazze e grattacieli, nel quale svettano giochi d’acqua; o il campus dove, nel progetto del parco pubblico del nuovo polo della salute, l’acqua avrà un’importanza centrale. La preziosità dell’acqua è stata solennemente proclamata dall’ONU, che ha istituito, con ricorrenza il 22 marzo di ogni anno, la Giornata mondiale dell’acqua, a seguito della Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 sull’ambiente. Infine, è di questi giorni (fine agosto 2018), l’indicazione dell’acqua come tema al centro della IV Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato, giornate istituite da Papa Francesco nel 2015.

La letteratura scientifica antropologica, accumulatasi nel corso del tempo, ha rivolto la propria attenzione a questo elemento indagandone i diversi universi simbolici da essa evocati o nei quali andava a inserirsi, arricchendone ulteriormente i significati. Penso ad esempio alle ricerche del giovane Franz Boas - che sarà poi considerato uno dei padri dell’antropologia moderna - nella Terra di Baffin, dove rilevò, tra gli eschimesi Inuit, una loro specifica scala di categorie cromatiche che influenzavano la loro percezione del colore dell’acqua del mare. Secondo l’attestazione del demologo di Cassano allo Jonio, Leonardo Alario, acuto indagatore della cultura di tradizione orale della sua terra, la Calabria, nell’acqua raccolta in una bacinella, la magara versa alcune gocce di olio, dalla cui particolare forma da esse assunte riesce a prevedere il futuro della richiedente, talora a individuare anche la persona che ha rubato o ha procurato occultamente il male. Al bambino balbuziente o gravemente ammalato si fa bere l’acqua benedetta in un campanellino usato per la messa (il campanello santo). Alario ricorda anche che il medico e storico calabrese Biagio Lanza, nella sua Monografia della città di Cassano e de’ rioni Lauropoli e Doria scritta nel 1857 (Prato, Tipografia Giachetti, figlio e c., 1884, p. 122). Così scrive: «la madre, che vede il suo bimbo infermo, lo mena in chiesa e gli fa bere l’acqua benedetta in un campanello, credendo così di guarirlo dalle malattie che soffre». Tra le molteplici virtù magiche dell’acqua, soprattutto terapeutiche, Alario cita un esempio, che riguarda un’area storicamente e geograficamente più vicino: «le Sibarite, e non solo, credevano che bagnarsi nelle acque del Crati favorisse la fecondità». Anche i narratori hanno utilizzato spesso l’elemento acqua quale segno e simbolo di purezza: da Elio Vittorini, che, narrando il suo accostarsi al marxismo, lo definì “acqua viva” cui abbeverarsi per placare la sua sete di giustizia e di uguaglianza; oppure Andrea Camilleri, che ci ha fornito, a metà degli Anni Novanta, un suo mirabile volume, La forma dell’acqua.

L’elemento acqua è molto presente nella Capitale fin nella toponomastica: ricordo gli ingegnosi e numerosi acquedotti realizzati nei secoli, a partire dal periodo repubblicano, per soddisfare le esigenze di una città con sempre più abitanti di ricevere acqua il più possibile pulita; arrivava da sorgenti delle aree circostanti al territorio urbano: dunque, via dell’Acqua Paola, via dell’Acqua Felice, via del Fosso dell’Acqua mariana, via dell’Acqua Marcia (dal nome del pretore Quinto Marcio Re che lo fece costruire nel 144 a.C.), etc. E poi c’è via di Acqua bullicante che ricorda invece la conformazione geomorfologica di un’area a Sud est della città e in particolare la presenza di un fiume, presente fin da tempi molto antichi, affluente dell’Aniene, chiamato Fosso della Marranella e che fino agli anni Trenta del Novecento era in superficie, mentre successivamente è diventato sotterraneo. All’altezza dell’odierna via di Acqua bullicante il fiume riceve le acque delle sorgenti del bullicame, caratterizzate dalla presenza di emanazioni gassose sulfuree che le facevano come ribollire. Questa vitalità acquatica sotterranea oggi è coperta da palazzi e da un intenso traffico automobilistico e di pedoni che ce ne fanno dimenticare la presenza. Ma nonostante ciò, la potenza dell’acqua - come elemento universalmente legato alla natura e alla vita umana - ebbe modo di emergere con prepotenza e vigore proprio laddove la mano umana aveva osato andare troppo oltre il limite posto dalla natura stessa: tutto avvenne negli anni Novanta del Novecento durante i lavori di sbancamento per la costruzione di un parcheggio sotterraneo, nell’area di quello che era stato, fino agli anni Cinquanta, l’opificio della CISA, poi SNIA-Viscosa, del cui terreno importanti ditte di costruttori si erano impossessate. In quel punto, poi, oltre al sotterraneo fiume Fosso della Marranella c’era, poco al di sotto, una falda acquifera di un’acqua minerale purissima. Dunque, durante i lavori la falda prese a sgorgare, riempendo l’invaso creatosi con i lavori stessi. A nulla valsero i numerosi tentativi, da parte della ditta, di fermare il flusso d’acqua o di deviarlo nelle fogne, esso invece s’impadronì trionfalmente dell’area creando un lago dalle acque pulite e balneabili e dalla ricchissima biodiversità, il più grande all’interno di un’area della città semicentrale come questa: fu il trionfo di decine di migliaia di cittadini, che riunitisi in Associazioni e Comitati s’impegnarono e s’impegnano tuttora per mantenere l’area d’uso pubblico e al riparo dalle mire cementificatrici di ciechi costruttori senza scrupoli e a dir poco non lungimiranti. Guardando il mare e come in essa galleggiasse un guscio di noce svuotata - dice la leggenda -, un indigeno isolano inventò la barca, strumento essenziale di comunicazione e di incontro con gli altri. Non è un caso che il capolavoro di uno dei padri fondatori della moderna antropologia, Bronislaw Malinowski abbia sviluppato un’approfondita analisi dell’istituto kula, complesso fenomeno di scambio di doni consistenti in braccialetti e collane, attuato dagli abitanti dell’arcipelago delle Trobriand, nel suo Argonauti del Pacifico occidentale (1922), divenuto un classico dell’antropologia. Da tale analisi emerge nettamente che al termine di questo giro cerimoniale nessuno è più ricco rispetto all’inizio del viaggio e nessuno è più povero, se esaminati sotto il profilo economico, ma sono tutti più ricchi da un punto di vista culturale, perché hanno rafforzato i vincoli di reciproca solidarietà. Il secondo ordine di riflessioni riguarda la più volte affermata volontà del governatore Pilato di non condannare il Cristo, il suo “lavarsi le mani”. La morte del Salvatore comunque si inseriva in un disegno che partiva da lontano, che si rifaceva alla tentazione messa in opera dal Serpente per indurre Eva a mangiare il frutto proibito per avere il dono della conoscenza del bene e del male e di vincere la morte, rendendosi così uguale a Dio (“Eritis sicut Deus”). La conoscenza del bene e del male l’umanità l’ha già acquisita, ma la vittoria sulla morte si è rivelata promessa mendace. Eppure la disobbedienza primigenia ha comportato la cacciata dell’umanità dall’Eden, attuata dal Dio sdegnato per l’ambizione di uguagliarlo da parte delle sue creature. È il Peccato Originale da cui tutti noi, battezzati o battezzandi veniamo mondati attraverso il rito del Battesimo, nel corso del quale il sacerdote versa sul capo del battezzando dell’acqua mentre pronuncia le formule liturgiche. Lo stesso Cristo venne battezzato da Giovanni con le acque del Giordano. A proposito del Peccato Originale, ricordo l’espressione agostiniana: O felix culpa, quae talem ac tantum meruit habere Redemptorem (Beata colpa, che meritò tale e così grande Redentore). Nella tradizione vetero e neotestamentaria è più volte citata la piscina di Siloe, presso la quale avviene uno dei primi miracoli del Cristo, che segna con la propria saliva, impastata con la terra, gli occhi dell’uomo cieco fin dalla nascita, invitandolo a lavarsi proprio nella piscina di Siloe: da essa, il miracolato ritornerà perfettamente vedente. In ogni Chiesa vi è quasi sempre, vicino all’ingresso, il fonte battesimale, sede specifica di tutti i battesimi che segnalano l’ingresso del battezzato nel Popolo di Dio. Tale fonte è spesso, a livello popolare, oggetto di barzellette, a sfondo erotico, quando non del tutto sessuale. Segno evidente di quanto sia saldo, nella cultura folklorica, un cattolicesimo popolare ben diverso, quando non in contrapposizione, con le forme e i riti del cattolicesimo ufficiale. Già Gramsci aveva notato questa pluralità di “cattolicismi”, sottolineando anche la valenza contrappositiva del folklore rispetto alla cultura “ufficiale”, tematica che sarebbe stata ripresa nella seconda metà del secolo appena trascorso. Sono forme queste, sia quelle popolari, sia quelle del cattolicesimo ufficiale, oggi in notevole declino, secondo la ferrea logica della cultura del profitto, attualmente imperante, con ulteriore potenziamento nella fase della globalizzazione che stiamo tutti subendo. Ad attenuare questo scenario oggettivamente apocalittico, va segnalato anche il miglioramento progressivo delle condizioni igieniche e della prassi medico-terapeutica. Nella società tradizionale i medici non usavano “lavarsi le mani” neanche negli interventi chirurgici: non conosceremo mai il numero esatto di partorienti morte per setticemia, dato questo disinvolto “non lavarsi le mani”, di chi pur le doveva assistere medicalmente. Tutto questo si inscrive comunque in una Storia che è dominata dall’idea di progresso universale, che guida l’umanità a sempre ulteriori conquiste fino a quella finale della vita eterna, meritata attraverso un’esistenza terrena ispirata ai saldi, indefettibili princìpi cristiani. Era, questa, una strategia tesa al superamento della morte, che ritroviamo, pur in forme estremamente differenziate, presso tutti i popoli che hanno elaborato rituali funerari atti a garantire la vita dei defunti nelle regioni dell’Aldilà, assicurando loro la capacità di comunicare con i loro cari sopravvissuti, lenendo così l’angoscia dell’interruzione violenta della comunicazione o del rapporto, per il sopraggiungere dell’evento irrimediabile.

La concezione del tempo, della storia, che fluiscono, serenamente o tumultuosamente, verso una fulgida meta finale, finisce con la crisi della modernità, che prelude alla fine del futuro. Molte ne sono le cause e in questa sede è impossibile enumerarle. Così il futuro, se pure è ancora possibile il futuro, è futuro spento, avvizzito, è ex futuro. Si può avere contezza degli sforzi messi in opera per costruirlo comunque, ma, come ci avverte la riflessione filosofica, il mondo è diventato sempre più inabitabile dall’uomo. Penso ad esempio a Martin Heidegger, per il quale l’uomo, da “creatore del mondo” è divenuto sempre più un “parassita del mondo”, assumendo il ruolo passivo di “osservatore e consumatore del mondo”. Carlo Bordoni, nel suo recentissimo, splendido saggio Il paradosso di Icaro. Ovvero la necessità della disobbedienza (Milano, Il Saggiatore, 2018), denso di acutissime considerazioni critiche e di sollecitazioni problematiche, rileva: «le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki e i successivi esperimenti nucleari assieme ai micidiali ordigni all’idrogeno (bomba H) e al neutrone (bomba N), un’arma “ecologica” che uccide gli uomini lasciando intatti gli edifici e gli oggetti, rendono l’evidenza di una realtà che non è mai stata così vicina all’autodistruzione. Eppure mai così lontana, come oggi, dalla mente degli uomini e dalla loro coscienza critica. Sgravata da ogni promozione religiosa, la paura di una fine imminente per effetto di una guerra atomica appare rimossa, volutamente accantonata nel profondo e disattesa con superficiale indifferenza, come se l’umanità, presa da problemi più urgenti, che richiedono la sua attenzione, non avesse tempo da dedicare al rischio della sua estinzione». L’etica della responsabilità, che ha sorretto secoli, è stata oggi sostituita dall’etica dell’indifferenza.

Eppure, ce lo ha ricordato Zygmunt Bauman, è indispensabile, per evitare la catastrofe, credere nella sua possibilità. «Occorre convincersi che l’impossibile è possibile. Che il possibile è sempre in agguato, senza tregua, ben protetto dal carapace dell’impossibilità, in attesa del momento giusto per irrompere. Nessuna minaccia è così temibile e nessuna catastrofe colpisce tanto duramente come quelle ritenute altamente improbabili». Dinanzi a tale prospettiva, preferiamo, alla consapevolezza, l’oblio, l’irresponsabile indifferenza, il “lavarcene le mani”. Così corriamo sempre più in fretta verso un baratro che ci distruggerà, travolgendo, con noi, l’intera umanità. Liliana Segre, senatrice a vita, ha parlato, in una recente intervista a la Repubblica, degli anni delle Leggi razziali in Italia, del fascismo, della guerra, dell’occupazione tedesca: «allora non essere indifferenti era una scelta pericolosa contro una dittatura, per questo onoro tantissimo gli antifascisti o gli “IMI”, i militari italiani che hanno scelto di star nei campi quando potevano trovarsi altrove. Oggi che non c’è scelta da fare, in democrazia, essere indifferenti è più grave».

Tra gli esempi di accezione negativa del “lavarsi le mani”, vorrei ricordare il famigerato motto “me ne frego”, significativa testimonianza dell’arroganza violenta e cialtrona dei fascisti. La cronaca testimonia l’onnipervasività di quest’etica dell’indifferenza che sta per travolgerci tutti. Riporterò soltanto un esempio, apparentemente minuto, ma che mi appare estremamente significativo. Il Corriere della sera, nell’arco che va dall’11 al 13 luglio scorsi ha raccontato l’odissea subita da una ragazza aggredita da uno sconosciuto, che ha chiesto inutilmente soccorso a quanti pur affollavano una piazza romana. Questi le hanno rivolto una gelida indifferenza, come se la oltrepassassero con uno sguardo che non conosceva né pietà né sentimento di umana solidarietà. Soltanto dei ragazzini quattordicenni in scooter le si sono accostati e le hanno prestato soccorso. Con l’intervento del 113 l’aggressore è stato finalmente fermato e portato in questura, ma nonostante su di lui si fossero accumulate altre denunce di donne molestate, ben sei nelle ultime 48 ore, nessun arresto ha fermato l’uomo, lasciando nello sconforto la giovane donna aggredita. Scrivendo al giornale, Anna (nome di fantasia), aggiunge la sua disperata speranza di non dover trasformare come i cactus le foglie in spine. Questa lettera ha innescato una serie di reazioni; si sono registrati, così, annunci di disegni di legge di parlamentari relativi alla presentazione del reato di flagranza differita (l’assenza di flagranza di reato era stata lo spunto formalistico per il rilascio dell’aggressore), mentre altre parlamentari hanno affermato: “dobbiamo recuperare il coraggio di essere comunità”. Infine, la notizia che l’aggressore è stato tradotto in carcere, mettendo così al riparo altre donne da sue compulsive aggressioni. Forse, è possibile, nonostante tutto, la speranza che si ritrovino le ragioni di una partecipe, umana solidarietà.

Oggi tutti noi ci immergiamo gioiosi nelle acque del mare, o delle piscine, nuotando liberamente e abbandonandoci al legittimo refrigerio e piacere dato dalla frescura. Eppure, nella nostra innocente gioia di liberi nuotatori, non deve sparire il pensiero di come questo stesso Mediterraneo sia solcato da navi e barconi di migranti extraeuropei che fuggono dalla violenza di regimi dittatoriali o di una vita estremamente povera, priva delle risorse necessarie per la sua continuazione. Vittime che quotidianamente punteggiano le giornate di questo nostro tempo così feroce, che ha trasformato implacabilmente il mare nostrum in mare monstrum. Dinanzi a questa ecatombe il lavarsi le mani alla Ponzio Pilato segnalerebbe in noi la definitiva perdita dell’umano, la morte di qualsiasi sentimento di umana solidarietà e della possibilità stessa di costituire ancora una comunità umana. È in questa direzione, invece, che deve rivolgersi tutto il nostro impegno, la nostra volontà di ritrovare quelle ragioni dell’Uomo per la cui salvezza si incarnò il divino Prigioniero interrogato dal volenteroso e pavido Ponzio Pilato.

*Relazione svolta dall’autore al Festival dei sensi svoltosi in Val d’Itria dal 17 al 19 agosto 2018, Masseria Capece, 19 agosto 2018.