Le danze tradizionali in Campania

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Le vie dei passi danzanti

Premessa

La ricerca delle danze tradizionali italiane - unica per intensità, durata e profondità - è stata la grande passione della mia vita. Dopo oltre 40 anni di indagini e studi, e di fronte alla dispersione avvenuta della gran parte del patrimonio osservato e documentato, il compito dello studioso è quello di trasferire agli altri le proprie conoscenze, le analisi comparative e le teorie elaborate, affinché restino ai posteri come contributo sugli studi delle tradizioni di cultura locale. Interpretando il ruolo che svolgo dal 2002 di consulente scientifico nazionale della Federazione Italiana di Tradizioni Popolari, in qualità di antropologo della danza, penso che sia utile ai gruppi di spettacolo avere un quadro generale di ciò che ho osservato e documentato nell’indagine sul terreno.

Se poi si pensa che almeno il 30-40% dei balli osservati negli ultimi quattro decenni è andato perduto o ne restano vaghi ricordi presso le generazioni successive, allora il grande mosaico dei balli tradizionali che andiamo a presentare in 25 puntate, passando in rassegna tutte le regioni della nostra penisola, diventa una guida cognitiva per meglio comprendere il ricco patrimonio immateriale dell’etnodanza italiana.

Procederemo secondo un parametro areale, attenendoci agli attuali territori regionali, ben sapendo, però, che le culture popolari costruiscono e manifestano le proprie forme espressive e i tratti significativi della propria identità culturale a seconda delle dinamiche autoctone, delle relazioni sociali, delle dominazioni, delle migrazioni, delle vicissitudini economiche, sanitarie, ecc. Insomma forme espressive e confini amministrativi sono due entità solo parzialmente interdipendenti, ma il loro abbinamento può funzionare come guida e semplificazione di un metodo espositivo e didattico.

Pertanto all’interno di una distribuzione meramente geografica dei balli, saranno precisate anche le appartenenze dei singoli modelli reperiti alle varie famiglie tipologiche delle danze di tradizione.

 

1. Il quadro generale delle danze tradizionali in Campania

Iniziamo dalla Campania, non solo per la longeva importanza storica che ha avuto su tutta la cultura italiana per oltre mille anni la capitale indiscussa del Regno di Napoli e poi del regno delle Due Sicilie, la città di Napoli, ma perché è la regione che presenta la complessità maggiore nella distribuzione delle varie famiglie etnocoreiche sul proprio territorio. È come se sul piano etnomusicale ed etnocoreologico ci trovassimo di fronte ad almeno 4 regioni culturali differenti: l’area napoletana-vesuviana, l’area irpina, l’area cilentana e l’area casertana-beneventana. Ognuna di queste aree presenta un assetto di usanze di danza proprie o affini alle culture confinanti esterne.

Se dovessimo approntare una mappa geografica di attestazione di ogni singola tipologia di danza presente sul territorio campano, vedremmo come, accanto alla collocazione delle danze etniche peculiari di zone precise, si formerebbero anche delle sovrapposizioni di modelli differenti che attraversano vaste zone del territorio meridionale.

 

a) L’area napoletana-vesuviana-domiziana

Data ormai per estinta in area metropolitana la famosissima tarantella napoletana, caratterizza quest’area il ballo etnico più tipico del mondo rurale partenopeo: il ballo sul tamburo (o ballë ‘n coppë o tammurrë), danza in coppia che si articola in alcune varianti di zona. Nella stessa zona convive in minor numero di paesi la quadriglia e il ballo carnevalesco del laccio d’amore o del palintrezzo. Nell’isola di Ischia si è conservata la danza armata della ‘ndrezzata.

 

b) L’area casertana-sannitica

Nella parte settentrionale della regione, dal litorale domiziano al Matese e al Sannio Beneventano, il ballo etnico più caratterizzante è la ballarella, danza in coppia singola e a più coppie, che può anch’essa considerarsi un sottogruppo dell’ampia famiglia della tarantella meridionale. Proprio la tarantella semplice o figurata a più coppie si innerva nel Sannio a fianco alla ballarella. Inoltre ritroviamo a chiazze la pratica della quadriglia, del laccio d’amore e di danze armate dette in vario modo (taccarata, ballo delle mazzarelle, ecc.).

 

c) L’area irpina

Un’ampia fascia appenninica meridionale, che va dal Sannio beneventano alla Basilicata, si caratterizza per un sistema abitativo fortemente disseminato lungo una miriade di valli, piccoli altipiani e montagne ed un sistema socio-economico basato sull’agricoltura e sull’allevamento stanziale del bestiame. In questo territorio regnano e convivano due generi differenti di balli: la tarantella e il batticulo. Entrambi presentano numerose varianti esecutive. Più frazionata è la presenza del palintrezzo o laccio d’amore, del ballintrezzo o intrecciata e di tarantelle della mascherata: tutte danze sovente legate al carnevale, che in molti paesi è particolarmente sentito. Anche la quadriglia si esegue in certi paesi in occasioni comunitarie. Poi abbiamo documentato alcuni balli-gioco (bello zampitto, affila Catarina, ecc.), cui accenneremo più avanti.

 

d) L’area cilentana

Gran parte della vasta provincia di Salerno è costituita dal Cilento, che con le aree limitrofe della valle del Sele e del Vallo di Diano è contrassegnato da una evidente cultura lucana del ballo e della musica. Qui è la tarantella a farla da padrona, sia nelle forme arcaiche della danza in cerchio e di coppia, sia nelle forme più complesse della tarantella comandata a più coppie. Varianti di tarantelle sono da considerarsi il passé, la tarantella col fazzoletto, lo zumparello, la zumbarola. Più rari sono il palintrezzo, la quadriglia e alcuni balli-gioco.

 

Il ballo sul tamburo nell’area partenopea e la tarantella napoletana

Dal quadro sopra esposto, sorge spontanea una domanda: ma che fine ha fatto la famosissima “tarantella napoletana”? Uno dei simboli più noti dell’Italia all’estero è sicuramente la tarantella, danza popolare in perenne simbiosi con la città di Napoli. Come Napoli è l’emblema della italianità, così la tarantella associa d’un colpo nell’immaginario mondiale Napoli al “suo” ballo, producendo per effetto il concetto che la tarantella sia “il” ballo italiano per antonomasia.

In realtà le prime fonti scritte e musicali, oggi note, attestano la presenza di un ballo chiamato “tarantella” (quale diminutivo di “taranta”) nei primi anni del XVII secolo sia in Puglia, come una delle danze terapeutiche utilizzate nel complesso fenomeno del tarantismo1, sia in Napoli in una intavolatura musicale per lettere alfabetiche di Foriano Pico2. Ma sono i documenti letterari e soprattutto iconografici che affidano prevalentemente a Napoli sette-ottocentesca (quella che fu allora - insieme a Parigi - la più importante capitale culturale europea) l’esistenza della tarantella, danza di origine contadina trasferitasi poi in ambito urbano e divenuta persino emblema anche della nobiltà partenopea.

Di tarantella a Napoli e dintorni se ne parla, se ne scrive e soprattutto se ne raffigurano le scene pittoriche dagli inizi del XVII agli inizi del XX secolo. Con le ultime segnalazioni giornalistiche delle feste di Piedigrotta e alcuni articoli della rivista “Archivio per lo Studio delle Tradizioni Popolari” del Pitré, questo ballo scompare dalle cronache festive dell’area napoletana nei primi anni del ‘900. Solo con il rinnovato interesse per il folklore musicale degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso e poi anche per il folklore coreutico si scopre che in quella stessa area di pertinenza della “tarantella napoletana” è rimasta in uso una danza detta più comunemente o ballo, oppure o ballë ‘n coppë o tammurrë. Se raffrontiamo le scarse descrizioni letterarie e soprattutto la doviziosissima mole di incisioni, pitture, affreschi, sculture e intarsi della “tarantella napolitana”, notiamo la prossimità morfologica, se non la sovrapposizione delle due danze, la tarantella e il ballo sul tamburo.

Dunque siamo di fronte ad un particolare caso di ridenominazione di un genere coreutico. Ciò si spiega perché nel XIX secolo la fama della tarantella si è sempre più legata agli ambienti urbani della capitale, esautorando così la tradizione del medesimo tipo di ballo delle comunità rurali della provincia, le quali, per sudditanza culturale e per necessità di differenziazione dal modello stilizzato e dominante, ha risolto la questione terminologica appellando i propri modelli con il semplice nome di “ballo”, e per distinguere il proprio repertorio canoro-strumentale rimasto più arcaico rispetto alle elaborate tarantelle colte eseguite da organici musicali complessi e virtuosi, è stato precisato con la dizione o ballë ‘n coppë o tammurrë (ballo eseguito sul ritmo del tamburo).

In un grande anello che circonda il capoluogo, che va dalla bassa valle del Volturno sino alla penisola sorrentina e costiera amalfitana e a tutta l’area vesuviana, alla Terra di lavoro sino al Volturno meridionale domina tale ballo (ivi compresi l’area domiziana, il Casertano, il Nolano, l’area circumvesuviana, l’agro sarnese-nocerino e i monti Lattari); è sopravvissuto sino ai nostri giorni - grazie a qualche centinaio di conoscitori e praticanti - un composito gruppo di balli sul tamburo, detto dai diretti esecutori anche semplicemente ballo (o, come più spesso negli ultimi anni viene pubblicizzata dai media, tammurriata, termine che fino ad alcuni decenni fa designava solo il repertorio canoro-strumentale).

In una più ampia classificazione dei balli etnici italiani, includiamo il ballo sul tamburo nella grande famiglia della tarantella meridionale, di cui costituisce uno specifico e originale sottogruppo basato sul ritmo prevalentemente binario, sul canto modale, sulla partecipazione al ballo esclusivamente in coppia (mista e non), su una intensa dinamica delle braccia determinata dall’uso di una pariglia di castagnette che i ballatori tengono obbligatoriamente in entrambe le mani durante l’esecuzione coreutica. L’uso delle castagnette, oltre a fornire il ritmo di base e dare ai ballatori e alle ballatrici il piacevole senso di avere il ritmo nelle mani, obbliga gli stessi ad una particolare e vivace cinetica di mani, braccia e busto. Il ballo trae il nome dal fondamentale ritmo binario marcato col tamburo (o tammurrë o a tammorra, un grande tamburo a cornice dipinta con sonagli di latta, con possibile addobbo di nastri o pitture policrome e campanelli) e dalla castagnette (o castagnelle) che i ballerini tengono sempre in entrambe le mani marcando omoritmicamente la cadenza di base. È la voce del canto lo strumento melodico principale nel concerto per il ballo sul tamburo. Ma spesso, a seconda delle usanze locali, il putipù o caccavella (tamburo a frizione), il triccheballacchë (martelli lignei intelaiati con sonagli), lo scetavaiassë (bastone dentato con sonagli metallici strofinato da un bastoncino), la treccia di campanelli di bicicletta, flauto dolce o doppio flauto a becco e la tromba degli zingari (scacciapensieri) accompagnano secondo i casi la voce umana, maschile o femminile, modulata secondo tecniche e stili particolari per eseguire un immenso repertorio di testi multitematici. Interventi corali dei presenti, intercalazioni stereotipiche, incitazioni e grida fanno da supporto essenziale all’esecuzione sonora.

Le nostre ricerche hanno individuato almeno quattro stili diversi del ballo sul tamburo, ma che hanno tutti un comune denominatore: alla botta di tamburo (intensificazione ritmica) corrisponde sempre una vutata (il giro veloce) dei ballatori.

 

a) Stile flegreo-domiziano-casertano

È la forma oggi rimasta più vitale, frequentata e complessa fra tutte le cosiddette tammurriate. Si differenzia dagli altri stili sin dall’esecuzione musicale: a condurre il ballo è non il canto, ma o sisco (flauto dritto di canna) o la tromba degli zingari. Il tamburo (o tammurrë) qui ha un ruolo minore ed è adoperato con minor valentìa e virtuosismo delle altre aree. Questo genere di danza, che viene detta dagli anziani anche tarantella, rappresenta una vera eccezione nell’intero panorama delle tarantelle meridionali: la quasi totalità delle tarantelle ha una struttura aperta, cioè ordine e durata delle parti musicali e coreutiche sono libere e affidate all’interpretazione soggettiva di suonatori e ballerini. Qui invece nella versione col flauto, è la suonata di questo strumento che con il suo fraseggio in parti ben riconoscibili a comandare l’esecuzione di figure precise: le stoppate, il dondolamento, il giro lento e le vutate (le girate). Il ballo col sisco, dunque, ha passi e figure coordinate dall’esecuzione musicale, mentre quello eseguito con la tromba degli zingari è più libero e soggettivo. La grande varietà di modi di girare allacciati o ravvicinati (soprattutto nei balli eseguiti dagli uomini) rende questa danza ricca e spettacolare.

 

b) Stile dell’entroterra vesuviano

Nei centri di Terzigno, Ottaviano, S. Giuseppe Vesuviano, Poggio Marino e Boscotrecase si è conservata per merito di pochi ma valenti ballatori e ballatrici un ballo sul tamburo ben strutturato e ordinato. Si eseguono al suono di un solo tamburo suonato virtuosisticamente, della voce, del triccheballache, del putipù, dello scetavajasse e delle castagnette figurazioni coreutiche ben riconoscibili: la vutata antioraria in coincidenza della botta di tamburo, il controgiro, la parte frontale, la passata, il giro lento. A Somma Vesuviana abbiamo la presenza di paranze, un numero più elevato di suonatori e strumenti, con presenza di un antico strumento, il doppio flauto, e strumenti più moderni come la fisarmonica.

 

c) Stile paganese-nocerino

Modello che accusa una certa dispersione di parti coreografiche e che si affida ad una maggior partecipazione pantomimica con avvicinamento frequente dei corpi, movimenti oscillatori del bacino e del sedere, piegamenti sulle gambe, intenso e variato muovere delle braccia. L’uso strumentale del canto e del tamburo è molto analogo al modello dell’entroterra vesuviano.

 

d) Stile lattaro

Sui monti Lattari e nell’interno della penisola sorrentina (Pimonte) si trovano tracce molto limitate di un modello di tammurriata contigua allo stile nocerino, ma con la vutata in senso orario e un procedere talvolta di spalle nel girare. Alla festa della Madonna dell’Avvocata sopra Maiori era andato quasi perduto il ballo, ma negli ultimi anni una ricostruzione in parte impropria ha supplito il vecchio modello.

 

La tammurriata dei femminielli

Una versione a parte di questo genere coreutico è eseguita dai “femminielli”, uomini afferenti talvolta all’omosessualità o semplicemente dai modi espressivi “affeminati” che vantano nel Napoletano un’ascendenza storica di tutto riguardo3. Come una consorteria sui generis, tali persone hanno elaborato da oltre due secoli uno stile esecutivo particolare, contrassegnato da pantomime allusive e da un ardore coreutico ostentativo. La loro presenza è ben integrata e benaccetta nei contesti popolari e nelle feste religiose, parentelari o carnevalesche del territorio. Le morfologie coreutiche e i valori devozionali che essi esprimono, sono di grande interesse antropologico e rappresentano un caso originalissimo di danza etnica in Italia.

 

La tammurriata urbana

Nel 1989 ho tenuto il primo corso di tammurriata a Napoli (stile vesuviano). Fino ad allora nessuno in loco aveva mai studiato la morfologia del ballo sul tamburo. L’interesse per questa danza è andato crescendo negli ambienti di riproposta urbana verso la metà degli anni ’90. Sono nate così varie scuole in Napoli (e poi nel resto di Italia nei cosiddetti ambienti del “ballo folk”) con maestri non sempre filologicamente preparati, che, attratti dalla spettacolarizzazione, hanno reinventato in parte un modello coreutico nuovo, stilizzato, dai movimenti delicati e dalle coreografie folkloristiche tendenti ad esaltare l’aspetto della seduzione e del corteggiamento nella coppia. Tale trasformazione del ballo si sta imponendo anche nei luoghi originari del ballo sul tamburo, e affascina le nuove generazioni, che abbandonano i modelli dei propri avi per aderire alla modernità e al fascino dell’esotismo metropolitano. Anche in questo la provincia rurale paga il suo complesso di inferiorità nei confronti dello status cittadino.

 

La ‘ndrezzata

Mentre l’accesso al ballo sul tamburo è di libera partecipazione, un ballo come la ‘ndrezzata (= intreccio di spade, bastoni e ballerini) prevede una delega della funzione coreutica ad un gruppo organizzato e la trasmissione delle tecniche mediante apposita scuola locale. La ‘ndrezzata è la più ricca e virtuosa moresca oggi presente in Italia; danza ancora in funzione a Buonopane d’Ischia, la sua esecuzione prevede due squadre di “battitori” maschi, differenziati nel loro costume marinaresco di tipo settecentesco dal diverso colore della giubba e del berretto, cui viene data significazione sessuale (giubba rossa i masculelli, verde i femminielli). L’assetto geometrico generale del ballo si basa sul doppio cerchio concentrico a fronti contrapposte, e durante il combattimento si mima una sorta di assedio, con ruoli interscambiabili (cambi frequenti cioè di posizione, da esterni a interni e viceversa).

Il complesso rituale della ‘ndrezzata (oggi collocato temporalmente nella festa della Madonna della Porta del lunedì in albis, ma – come afferma il Toschi, un tempo situato all’interno del cerimoniale carnevalesco) include un arrivo processionale a passo su ritmo di apposita tarantella, una predica iniziale del “caporale” dall’alto di una “treccia” di spade, diverse figure di combattimento e infine un’uscita processionale sulla medesima tarantella iniziale. Le figure coreutiche codificate vengono suggerite dal caporale e corrispondono ciascuna ad un’apposita strofa delle tante parti - differenti per testi e melodie, ma tutte aventi stesso ritmo e stesse cadenze - di cui si compone il canto. Dunque le varie figure della danza moresca vengono comandate dal canto. Il combattimento, sostenuto durante tutto il ballo, si fa intenso soprattutto sul finale, con frenetici colpi di spada e mazzarello (corto bastone) che ogni ballerino usa per battere.

Da decenni ad accompagnare la danza vi è un organico strumentale di clarino, flauto, chitarra e tamburello, ma sono il canto e il battito delle armi a costituire il vero repertorio musicale della danza. La stretta corrispondenza morfologica fra canto codificato dalla tradizione e la danza, imbriglia e protegge tale repertorio dalle metamorfosi possibili della modernità. Le innovazioni osservate negli ultimi decenni riguardano solo l’aver ceduto alle regole della spettacolarizzazione portando sui palchi (quindi decontestualizzando la sua funzione connotativa e sacrale) gruppi organizzati, ivi compresi anche squadre di bambini e coppi miste (uomini e vere donne).