Le feste patronali del terzo millennio nel territorio di Pescorocchiano

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Nel territorio del comune di Pescorocchiano situato nel Cicolano, ogni anno, d’estate vengono organizzate circa 15 feste patronali corrispondenti ad altrettanti villaggi che fanno capo ad una medesima chiesa. Si tratta di un’usanza secolare probabilmente originaria del Medioevo che risale al momento della fondazione dei centri abitati e dei luoghi di culto ad essi dedicati. Alcuni documenti confermano come la tradizione abbia avuto carattere ininterrotto nel tempo. La visita apostolica del vescovo di Rieti del 1574 descrive l’esistenza di 16 confraternite laiche intitolate ai Santi ed evidentemente deputate alla realizzazione della festa. In alcuni casi, esse possedevano terreni il cui affitto serviva a pagare le spese. Durante la Controriforma le autorità religiose prescrissero di modificare il titolo delle confraternite, dedicandole non più ai diversi Santi ma al Santissimo Sacramento o al Rosario. I terreni però rimasero a disposizione della festa della comunità e ancora oggi vi sono toponimi come la Noce o il Prato della Festa. Sempre tra il XVI ed il XVII secolo al fianco dell’originario culto dei Santi si rafforza moltissimo anche la devozione per la Madonna. I catasti onciari dell’archivio di Stato di Napoli riportano che le diverse universitas civium, ossia i comuni del tempo, inserivano in bilancio una cifra riservata oscillante tra gli 8 e 12 ducati per le Feste per i Santi Protettori. Nell’archivio privato della famiglia Di Giampietro di Colle di Pace esiste una Lista di S. Marciano fatta da Giuseppe Domenici nell’anno 1811 e si dà ad esiggere a Giovanni di Francesco Di Giampietro nell’anno 1812. Si tratta di un documento più unico che raro nel quale sono annotate in dettaglio tutte le offerte suddivise in due elenchi distinti. Nel primo vi sono i 14 capifamiglia componenti all’epoca la Parrocchia, definiti paternanti, che contribuirono in denaro con 20 grana a testa. Nel secondo vi sono i nomi di offerenti di generi alimentari e non, destinati tutti alla vendita. Primeggiano derrate come pane, vino e «maccaroni» e inoltre compaiono cascio, tritello, semola, carne, sale e «aromati» e altri prodotti come pelli e conciature. Tale atto riflette il sistema organizzativo tradizionale che prevedeva anno per anno l’estrazione degli organizzatori della festa da cartelle contenenti i nomi dei capifamiglia del paese. Queste persone, definiti festaroli, provvedevano, in primo luogo, a riscuotere le offerte promesse l’anno precedente, poi ad effettuare una questua di prodotti da mettere all’asta e a richiedere offerte in denaro per l’anno seguente, registrando il tutto in una lista, come quella redatta nel 1811, da passare ai nuovi estratti ai quali spettava eseguire a loro volta la riscossione. Un’ulteriore asta avveniva per assicurarsi il diritto di portare in spalla le statue dei Santi e un’altra ancora per poter ballare, alla conclusione della festa, la Pantasima o Pupazza, un fantoccio con castello di fuochi azionato da un ballerino. Le uscite principali consistevano nell’ingaggio di un tammorrino che al mattino annunciava l’inizio del periodo pestivo, di una banda musicale che salutava con un brano ogni singola famiglia del paese e che accompagnava la processione religiosa, di uno sparatore che accendeva batterie di mortaretti e di suonatori d’organetto o fisarmonica per l’intrattenimento serale. Originariamente le feste coincidevano con il calendario prescritto dalla liturgia del giorno e di conseguenza si dislocavano lungo tutti i 12 mesi; in seguito verso la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento i villaggi hanno cominciato a spostarle nei mesi di maggio, agosto e settembre, abbinando inoltre la festa del Santo con quella della Madonna in giorni di festa consecutivi. 

Le più antiche fotografie disponibili della zona hanno come soggetto proprio le feste patronali a riprova di come questi eventi fossero considerati un momento saliente della vita del paese. Il quadro descritto si è mantenuto sostanzialmente identico fino agli anni Sessanta del secolo scorso. Poi, come spiega Gianluigi Bravo, la fine della civiltà contadina ha scatenato la dispersione di alcuni elementi comportamentali e ha permesso, allo stesso tempo, una ricombinazione distaccata e creativa che ha creato le condizioni per un adeguamento utile a fare in modo che la tradizione continuasse. Così, il calendario si è concentrato soprattutto in agosto; nel 2019 12 feste su 15 si terranno in queste mese, e gli eventi di maggio e settembre sono pressoché scomparsi. 

Lungo tutto il Novecento si è inserito nel programma la commemorazione dei caduti durante le guerre mondiali. Nella maggior parte dei casi la lapide o il monumento ad essi dedicati è stato inaugurato giusto in occasione di una festa patronale e quasi sempre in prossimità della chiesa. Il luogo di svolgimento è cambiato e da aie ove si tritava il grano e piazzette vicino alla Chiesa si è passati a slarghi stradali e piazze moderne situati, per lo più, fuori dei centri storici. Le modalità logistiche sono più complesse in quanto bisogna richiedere in anticipo le autorizzazioni agli uffici preposti ed è necessario noleggiare un palco a norma, le luminarie e prevedere la richiesta di un certo aumento della potenza della corrente elettrica. Già d’inverno si firmano contratti con impresari per fissare le serate di complessi e orchestre, il cui repertorio spazia dal liscio alle cover, dai balli di gruppo a quelli sudamericani. Vi è stato l’avvento dei fuochi pirotecnici notturni, in precedenza poco praticati, che ha fatto nascere, tra gli anni 70 e gli anni 80, acerrime rivalità tra paesi in disputa per stabilire quali fossero i più belli. La messa all’asta di generi alimentari è quasi completamente scomparsa e la raccolta fondi si basa su una contribuzione volontaria in contanti dei residenti e dei non residenti originari del paese e su ricavi provenienti da lotterie e riscossioni di vario tipo. L’asta dei Santi è stata proibita dalla Diocesi di Rieti e tuttavia i fedeli continuano a fare offerte in denaro per portare in processione le immagini sacre.

A questi introiti si affiancano gli incassi di un chiosco per la somministrazione di bevande e alimenti street food e quelli di cene paesane con menù disparati che, correttamente o meno, hanno l’intenzione di attingere al patrimonio gastronomico locale. Tutto ciò presuppone un impegno maggiore rispetto al passato ed ha provocato in molti paesi l’abbandono della turnazione dei «festaroli» e la formazione di comitati ad hoc che fungano da apparati organizzatori che sappiano funzionare. Nel 2019 su 15 feste, 1 è organizzata dall’unica confraternita superstite tra quelle del 1574, soltanto 2 da «festaroli» estratti dalla bussola, 1 da «festaroli» annuali integrati da un comitato e ben 11 da un comitato di volontari. I cosiddetti comitati feste possono durare pochi anni, ma a volte inaugurano lunghi cicli pluriennali e in alcuni casi sfociano felicemente in associazioni permanenti. Essi sono composti sia da giovani che da uomini e donne adulti di differenti età, da persone che abitano in loco tutto l’anno o da persone che tornano regolarmente dalle città. Tutti però con il minimo comune denominatore di voler spendere parte del proprio tempo e delle proprie energie a favore del paese d’appartenenza. Spesso, il comitato allarga il ventaglio delle responsabilità arrivando a stringere contatti con l’Amministrazione Comunale per la manutenzione ordinaria del paese e per la progettazione di opere pubbliche. Anzi, non è raro il caso che i candidati alle elezioni vengano selezionati tra i leader dei comitati. 

L’arricchimento del programma con spettacoli quali fuochi serali e complessi, lo slittamento nei fini settimana e nei periodi di vacanza, l’aumento del budget e la nascita di soggetti organizzatori pratici ed efficienti, hanno consentito di adattare la tradizione ai tempi e di mantenere intatto il nucleo essenziale, consistente nella celebrazione della festa in onore dei Santi. Alcune costanti come l’apertura con colpi sicuri, i momenti liturgici, la presenza della banda musicale, il ballo della Pantasima, la convivialità con amici e parenti, rappresentano la memoria lunga della festa e persistono inalterate. Ma quale è stata la spinta che ha permesso a questo fatto culturale di resistere allo spopolamento demografico e ai mutamenti economici e sociali che si sono susseguiti? Senz’altro il bisogno diffuso d’identità. Tutti coloro che sono legati per motivi affettivi ad un paese sentono il bisogno di ritrovarsi in comunità e la modalità principale per raggiungere questo risultato è quello di organizzare e/o partecipare alla festa patronale.

Banchetti, processioni, commemorazioni, intrattenimento serale hanno questa importante funzione. Valori civili si fondono con quelli religiosi perché ciò che conta è semplicemente appartenere a qualcosa. Si ricerca un momento autentico che interrompa l’anonimato e la routine del lavoro e delle città. Anche per questo i partecipanti indossano un abbigliamento informale che sta pian piano soppiantando quello formale prevalente, mentre quello rituale è riservato soltanto a chi porta le Statue dei Santi ed un abbigliamento con funzione identificativa è usato dai comitati. Tale parentesi s’innesta così nelle ferie estive ma non assume affatto carattere di turismo promozionale tanto è vero che l’unica forma di divulgazione sono pagine e post sui social. In realtà, mettendo in atto la festa patronale ancora nel Terzo Millennio le piccole comunità del territorio di Pescorocchiano dimostrano a sé stesse e all’esterno la propria vitalità.