Le vie dei passi danzanti

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La castellana

Anche la castellana è un saltarello a struttura chiusa e bipartita, formato da:

- giro (lu jiru) 

- spuntapiede (lu spóndapè)

La troviamo nella Valle di Chienti in convivenza con il saltarello, ma con la consapevolezza delle differenze fra i due modelli. Il nome di castellana trae origine molto probabilmente per ragioni toponimiche, come ballo usato, cioè, in qualche borgo recante il nome di Castello (ad esempio Castelfidardo).

Il tratto più significativo di questo repertorio sta nella forte ritmicità del testo che deve assecondare la frenetica escursione ritmico-melodica della musica di organetto e cembalo. Pochi, infatti, sono i cantori che si cimentano nell’accompagnare questo tipo di castellana, poiché il canto si trasforma in uno scioglilingua a mozzafiato. Nelle canzoni a ballo e nei testi lirico-monostrofici degli stornelli, dei canti di lavoro e della Pasquella domina l’endecasillabo. Questo metro imperante e caratterizzante tutto il centro-sud ha la particolarità - proprio perché metro universale, polivalente e trasferibile in molte arie musicali che lo prevedono - di essere manipolato, frazionato, decurtato ed ampliato a seconda della necessità. Si noti fra saltarello e castellana le manomissioni che vengono apportate, con l’aggiunta di chiuse prolungate della strofa, arricchite da formule linguistiche sillabiche asemantiche, che donano ai versi un ritmo incalzante e micro-frazionato e li rendono altamente funzionali all’esecuzione coreutica.

 

E amore, amore che m’hai fatto fare / e da quindici anni m’hai fatto ‘mbazzire / e fatto ‘mbazzire là / e su pe l’urtica la fece passà, / e la fece passà su per l’urtica / su pe la riga la fece filà. / E da quindici anni là / pirinsù pirignò piringuà pirinlare / fatto ‘scordare [‘mbazzire]. 

E da qundici anni m’hai fatto ‘mbazzire / e da vabbu e mamma m’hai fatto scordare / e fatto scordare scì / canta lu gallu la notte e lu dì / e dove lu nidu l’ha fattu la merla / dove lu gallu fa chicchirichì. E da vabbu e mamma là / pirinsù pirignò piringuà pirinlare / fatto scordare.

E mmènzo del mare ce sta na viola / e non ce se pò passare per quanto ‘dora / e per quanto odora là. / e su pe l’urtica la fece passà, / e la fece passà su per l’urtica / su pe la riga la fece filà. / E non ce se pò passare / pirinsù pirignò piringuà pirinlare / per quando odora.

E dijielo al marinaro che la leva / e se passa lo mio amore eh s’innamora / e che s’innamora là / e sette cappotti che callo che fa / e sette cappotti che callo che mette / sabbato a sera, domenneca e là / e se passa lo mio amore / damme le mano lallire e llallera 

passa lo mio amore / damme la mano lallire lillore / e s’innamora.

E dijielo al marinà che la levasse / e che su lo petto sua se la mettesse / e se la mettesse scì / e canta lu gallu la notte e lu dì / e dove lu nidu c’ha fattu la merla / e dove lu gallu fa chicchirichì. / E dijielo al marinà / lallarallero lallarallaro / se la mettesse.

 

La Gallinella (Gajinella)

 

Ballo-gioco pantomimico cantato, diffuso fra Anconetano e Maceratese. Abbiamo documentato sia il ballo che il testo cantato che accompagna il ballo nei comuni a nord di Macerata. Qui si presenta come canto enumerativo scherzoso su una gallina un po’ birichina. Il testo si compone di quartine di ottonari, con attacco e chiusura identici e ripetitivi.

Potrebbe trattarsi di una derivazione di un vecchio canto a ballo cinque-settecentesco (Lucia Canazza o Cuccurucù), oppure di una variante, detta Galletta o Galletto, diffuso come ballo-gioco anche in Emilia-Romagna e Toscana, durante il quale un ballerino-gallo stuzzica a turno quattro donne-galline. La versione danzata marchigiana si esegue in coppia e la donna mima la beccata della gallina.

Oggi rimane perlopiù appannaggio dei gruppi folkloristici, mentre è in disuso nelle feste di campagna.

C’iajo una bella gajinella / me fetava su lu tittu / però me tocaa sta zittu / cocca mia pipina tòh.

C’iajo una bella gajinella / me fetava su li coppi / mi facia li pucì’ zoppi / cocca mia pipina tòh.

C’iajo una bella gajinella / me fetava sopra lu lettu / me lo facea pe dispettu / cocca mia pipina tòh

C’iajo una bella gajinella / me fetava su la ròla / per dispettu de Carola / cocca mia pipina tòh

C’iajo una bella gajinella / me fetava su le scale / per dispettu de Pasquale / cocca mia pipina tòh

C’iajo una bella gajinella / me fetava jo pe l’ara / per dispettu de la vergara / (cocca mia) era la mia pipina tòh

C’iajo una bella gajinella / me fetava jo la stalla / e no nge jao a cercalla / cocca mia pipina tòh

C’iajo una bella gajinella / me fetava jo lu garage / ello me dacìo pace / cocca mia pipina tòh

C’iajo una bella gajinella / me fetava jo lu fossu / ello je tinìo d’occhiu / cocca mia pipina tòh

C’iajo una bella gajinella / me fetava al vicinato / luogo bello e preparato / cocca mia pipina tòh

C’iajo una bella gajinella / me fetava sul pollaro / ello ce l’aìo a caro / cocca mia pipina tòh

C’iajo una bella gajinella / me fetava ello le coe / donghe ju cujìo l’oe / vella mia pipina toh

 

La Paroncina

(parroncina o pavoncina)

Danza cantata diffusa nelle Marche tra l’Anconetano e il Montefeltro e in Umbria nell’alta Valtiberina. Viene eseguita preferibilmente da due coppie miste poste a quadrato. Coreograficamente ha una struttura chiusa in perfetta corrispondenza con le quattro parti musicali: balletto, battito di mani e giravolte femminili, balletto e giro di braccia. Il repertorio canoro e musicale assegna questa danza all’ampia famiglia del trescone, della furlana e della veneziana; infatti anche i testi in distici sciolti del canto si ritrovano transitabili fra le suddette danze. Si tratta di un modello musicale che risale sicuramente al XVI secolo, poiché ne troviamo analogie fra varie versioni documentate fra Veneto, Emilia, Romagna, Toscana, Marche e Umbria.

La prima variante del nome trarrebbe origine dal termine “padroncina”, mentre la seconda introduce un riferimento zoomorfo al pavone. Importante è l’elegante esecuzione affidata alle donne nell’intermezzo del battito maschile delle mani.

Modalità esecutive del ballo: in Val Cesano la danza è a struttura chiusa tripartita e può essere eseguita da più coppie miste contemporaneamente disposte in cerchio: giro (a passeggio o allacciati), balletto (uomo e donna eseguono passi incrociati, saltellati e “a scarpetta”) e braccio (giro di braccia).

In Val Metauro la danza ha una struttura chiusa quadripartita e viene eseguita da due coppie miste: balletto, battito di mani, balletto e giro di braccia.

 

Furlana (o furlèna)

Il ballo “alla forlana” è documentato già a partire del XVI secolo dal Friuli e sarebbe approdato nella Serenissima attraverso le donne di servizio provenienti dal Friuli è allocatesi in Venezia. È stata poi Venezia il centro di espansione del ballo che è giunto sino in Francia.

La furlana è infatti già citata da fonti scritte del XVI sec., figura inoltre come “ballo furlano” nel “Primo libro di balli” di G. Mainerio (1578). Questo ballo si è diffuso nelle regioni settentrionali e in parte dell’Italia centrale (Toscana, Umbria e Montefeltro). 

Le varianti osservate dalla valle del Cesano sino alla Val Foglia si presentano in doppia modalità. Ci sono furlane “semplici”, eseguite in coppia, alcune a struttura binaria con passi saltellati e incrociati nel balletto e poi giro di braccia, oppure altre a struttura tripartita composta di giro, balletto e giri di braccia. Ci sono poi furlane doppie o spaccate, eseguite, cioè, da due coppie miste ed sono composte dal balletto con scarpetta (balletto staccato con passi saltellati, incrociati e a spuntapiede) e dallo spacco (una coppia a turno attraversa in avanti e dietro inframezzandosi nell’altra coppia); ad ogni ripetizione della struttura si alternano a turno le coppie nello “spaccare” l’altra.

Manfrina 

Etimologicamente il termine manfrina è una contrazione dialettizzata della toponimica monferrina (ballo del Monferrato), diffusasi in quasi tutti gli stati dell’Italia centro-settentrionale nei primi decenni del XIX secolo. La manfrina è la più ampia famiglia di danze dell’Italia settentrionale e si è diffusa anche in Toscana settentrionale, Umbria, Marche centro-settentrionale e Sabina. V’è stato nel tempo un proliferare di varianti, quasi che ogni comunità tendesse a elaborarne una propria forma. Nel Montefeltro-Pesarese e nell’Anconetano compare in modo saltuario; tutti gli esempi marchigiani finora documentati sono eseguiti da due coppie miste ed hanno una struttura chiusa guidata dall’esecuzione musicale, anch’essa articolata in parti ben definite.

Manfrina di Val Candigliano (PU): la danza è composta da spasso (le due coppie procedono in senso antiorario a braccetto o legati a polka), balletto (parte frontale con passi incrociati e saltellati) e intreccio di braccia (una catena con passamano).

Manfrina della Val Metauro (PU): la danza è composta da giro (le due coppie girano in senso antiorario allacciate), balletto (i quatto ballerini si pongono di fronte ed eseguono sul posto passi saltellati e incrociati) e intreccio a catena di braccia.

 

Saltarello a sei (o ballinsei)

Nella parte settentrionale delle Marche, tra Pesarese e Montefeltro sino alla Val Marecchia, non vi è uso di ballare il saltarello in coppia, come nel resto della regione, ma il saltarello qui è difatti una contraddanza a tre coppie. Anche questa versione fa parte delle danze a struttura chiusa ed è su schema sempre tripartito. La disposizione dei ballerini è a contraddanza: un uomo con due donne laterali da una parte e di fronte una donna con due uomini laterali dall’altra, in modo che ciascun cavaliere abbia la propria donna di partenza di fronte.

In val Metauro la struttura del saltarello è composta da incontro (i due terzetti si vanno incontro due volte), giro o spaccata (con la coppia centrale che attiva uno scambio di giri sottobraccio con i tre partner dell’altro sesso) e un balletto con scarpetta sullo stile della locale furlana. 

A fine di ogni schema strutturale c’è il cambio di posizione dei ballerini (colui o colei che sta sulla destra di ogni schieramento passa nella schiera che sta di fronte), in modo da permettere nella seconda parte della struttura a tutti di essere a turno protagonisti.

 

Ballo dei gobbi

Ballo carnevalesco eseguito da tre uomini vestiti da gobbuti su musica propria. La struttura chiusa del ballo si articola in due parti ben distinte: un ballo in tondo (antiorario) e una parte dei gesti a controtempi fra il ballerino centrale e i due laterali.

Molto analogo nella musica e nella cinesica con il ballo dei gobbi ritrovato sull’Amiata in Toscana.

I gesti erano scherzosi, provocatori e persino scurrili (gesti di saluto, offensivi, volgari, ridicoli, licenziosi e allusivi alla sessualità, ecc.). Si tratta di una danza rituale del Carnevale, gli esecutori del ballo dei gobbi, infatti, vestiti per l’occasione da miserabili della comunità, erano coloro che accompagnavano il carnevale (umano prima e fantoccio poi) alla sua morte e al suo funerale.

La frequente allusione dei gesti alla sessualità fa di questa danza un esempio indiretto di ballo della morte e della resurrezione, tipica del repertorio etnocoreutico di molti carnevali.

Esso simboleggia per analogia il ciclo vitale della natura: dalla morte della stagione invernale si propizia l’arrivo della primavera e la rinascita della vita naturale.

 

Spaccafilone

Ballo a struttura binaria chiusa documentato nel Montefeltro ma caduto in disuso già negli anni ’90 del secolo scorso. Esso veniva eseguito da 3 coppie, che eseguivano un vivace balletto e poi uno scambio di dama e un galoppo lungo il quadrilatero della stanza.

 

Ballo del richiamo (o della sala)

 

Ballo cantato a invito, nel quale un capoballo inizia prendendo una donna e iniziando a ballare a passetto con lei cantando invita l’uomo che la donna gli suggerisce e col quale desidera ballare.

La formula testuale di invito può variare da paese a paese, ma il modello generale è il seguente:

 

Io ballo in questa sala

e non so se ballo bene

se... (il nome dell’uomo scelto)

qua non viene

ma se... (si ripete lo stesso nome)

qua verrà

questo ballo si farà.

 

All’arrivo del cavaliere chiamato, il maestro di sala gli cede la donna e ne prende un’altra e riparte con l’invito. Così via via aumentano le coppie al ballo, finché il capoballo si tiene per sé l’ultima donna disponibile. Vi sono anche versioni del ballo che prevedono lo scioglimento e l’esclusione progressiva dal ballo delle coppie nel medesimo ordine con cui sono state invitate, in modo che ognuno resti nella danza per la medesima durata degli altri. La danza ha un’origine antica, è persino accennata dal Boccaccio nel Decameron (VIII giornata, II novella), nella novella di Belcolore e il prete di Varlungo, dove si parla di questa donna che sapeva ben suonare il cembalo, cantare e “menare” il ballo cantato L’acqua corre alla borrana3.

 

Quadriglia

Anche nelle Marche si trovano tracce di pratica della quadriglia. Ballo sociale a struttura aperta e a numero vario di coppie, che eseguono molte figurazioni, comandate da un caposala o maestro di ballo. Anche nelle Marche i comandi vengono dati in un francese dialettizzato e prevedono sia figure classiche (promenade in coppie, girotondo, doppio cerchio concentrico, spirale, serpentina, galleria, catena con passamano, ponti, passetto legato, ecc.) che figure improvvisate. Essenziale è l’abilità di chi guida: la maestria del caposala sta nel costruire le figure con passaggi appropriati fra di esse e soprattutto nel riparare errori e confusioni di realizzazione che si possono creare da parte dei ballerini non addestrati.

 

Scotis (o scotisa)

Balli a più coppie miste a struttura modulare (cioè con sequenza fissa di passi ripetuti su fraseggi di 8 o 16 misure) che procedono in cerchio antiorario, com’è classico nei balli di sala. Derivato dalla scottish del centro-nord europeo, questo modello dell’ampia famiglia delle polke figurate si è diffuso nella prima metà del XIX secolo in tutte le regioni italiane ed è soprannominato in vari modi. È entrato a far parte delle danze di società da sala, insieme a valzer, polka, mazurka, e poi a tango, fox-trot, chachacha, ecc. Nelle Marche lo abbiamo trovato attestato nelle aree interne delle province di Ancona e Pesaro.

 

Polka russa (porca russa) 

Ballo ottocentesco di provenienza aristocratica, facente parte delle numerose “polke figurate” molto frequentate nei saloni della borghesia e della nobiltà europea. Si tratta di “balli di società” che si sono propagati anche attraverso il pullulare di scuole e di manuali di ballo. Tali danze discesero in ambito popolare attraverso l’imitazione e l’adozione delle famiglie di fascia artigiana e piccolo-borghese di paese e si sono poi conservate nel mondo contadino, che le ha in parte stravolte e adattate a modalità locali. Questa versione si presenta come canzone a ballo e l’abbiamo trovata diffusa anche in altre regioni (Toscana, Umbria, Romagna, Abruzzo, Basilicata, Puglia, ecc.) con nomi diversi: rossa, fiorata, tre passi, ecc.4. Vi sono anche versioni cantate del ballo, dove si alternano strofa cantata a ritornello di musica strumentale. La struttura chiusa del ballo prevede una parte di passi laterali della coppia allacciata a ballo liscio, con presa per mano o sciolta, ed una parte girata a passetto. Uno dei testi più diffuso è il seguente:

 

Me la dai si si / me la dai no e no / era lei che lo voleva / quel mazzolin di fior.

Me la dai si si / me la dai no no / era lei che lo voleva / quello bacin d’amor

 

NOTE

1 - Dopo aver conosciuto i cantori e suonatori marchigiani a Firenze nel settembre 1979, il mese successivo organizzai con un gruppo di appassionati di danza popolare una visita a Petriolo per poter osservare i loro balli; fummo accolti con grande cortesia e generosa ospitalità. Mi ero fatto prestare una cinepresa super 8mm senza sonoro, e potei documentare per la prima volta un ballo tradizionale in un contesto originario. Pesallaccia, Fifo e Domenico eseguirono con un paio di signore anziane alcune sequenze di saltarello secondo l’usanza di Petriolo e Corridonia; ce ne spiegarono poi la struttura e ci mostrarono la differenza con la castellana, mentre Peppe col suo organetto ci spiegava le parti melodiche corrispondenti ad ogni figura del ballo. Compresi che la pratica del ballo era ormai in disuso nella zona e solo gli anziani ne erano a conoscenza per aver frequentato regolarmente i balli sino ad una ventina di anni addietro. Sono tornato poi più volte per approfondire la conoscenza dei balli e nel 1981 realizzai un’ampia registrazione di canti e suonate su bobina, nonché di balli ed interviste su pellicola. I periodi di maggior intensità di indagine sono stati l’estate del 1987, del 1992 e l’estate autunno del 2007.

Le ricerche del 1987 sono state davvero incredibili: pur procedendo in prima perlustrazione, i risultati audiovisivi ottenuto sono stati abbondanti. La presenza ancora intensa di suonatori e ballerini nei vari centri dell’interno indagati ci permetteva di documentare ogni giorno suonate, cantate e danze in paesi diversi, persino talvolta in due differenti paesi nello stesso giorno. Bastava una richiesta, qualche intervista e la sera la piazza del paese o le case private si tramutavano in situazioni di festa da ballo.

Venti anni dopo la situazione si era più impoverita, ma rincontrando alcuni medesimi ballerini filmati venti anni prima, abbiamo potuto constatare dal vivo quanto si perde e si trasforma nel ballo con l’arrivo della vecchiaia. Tale esperienza ha rappresentato per noi una importante lente di osservazione e di valutazione dei modi esecutivi che si trasformano a seconda dell’età degli esecutori.

2 - I testi dei canti a ballo qui riprodotti sono stati attinti fra Petriolo e Corridonia.

3 - Cfr. sull’argomento Gala G. M., (1996), “Io non so se ballo bene “- Canzoni a ballo e i balli cantati nella tradizione popolare italiana, parte I, in “Choreola”, anno II, n. 7-8, autunno-inverno 1992, pp. 23-36.

4 - L’attributo “russa” non vuol dire affatto di provenienza dalla Russia, ma è una corruzione di “rossa”; spesso si mettevano a quadriglie, polke, mazurke e valzer nomi fantasiosi per distinguere e promuovere ogni novità coreutica.

 

Riferimenti bibliografici

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Ibid. (1953), Bibliografia delle tradizioni popolari marchigiane, Firenze, Leo Olschki.

Drago Ignazio, Cesaretti Leda (1924), Il marchigiano, Palermo, Industrie Riunite Editoriali Siciliane.

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Ibid. (1993), La saltarella dell’Alta Sabina, (libretto allegato all’omonimo cd musicale TA005 della collana “Ethnica”, con n. 24 brani), Firenze, Edizioni Taranta.

Ibid. (1996), “Io non so se ballo bene “- Canzoni a ballo e i balli cantati nella tradizione popolare italiana, parte I, in “Choreola”, anno II, n. 7-8, autunno-inverno 1992, pp. 2-136; parte II, in “Choreola”, anno III, n. 9, primavera-estate 1993, pp. 137-240; parte III, in “Choreola”, anno IV, n. 11, primavera-estate 1994, pp. 242-328, Firenze, Edizioni Taranta; parte IV, in “Choreola”, anno IV, n. 12, autunno-inverno 1994, pp. 329-422.

Ibid. (1998), Balli popolari in Abruzzo Vol. 2: La saltarella del Teramano (libretto allegato all’omonimo cd musicale TA011 della collana “Ethnica”, con n. 33 brani), Firenze, Edizioni Taranta.

Ibid. (2008), Bellina che te piace l’allegria. Canti e balli marchigiani nella Valle del Chienti, (libretto allegato all’omonimo cd musicale TA031 della collana “Ethnica”, con n. 19 brani), Firenze, Edizioni Taranta.

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