Nei giorni scorsi, il centenario della nascita di Leonardo Sciascia – Racalmuto, 8 gennaio 1921 - Palermo, 20 novembre 1989 – è stata occasione perché i giornali rimandassero alla figura e all’opera di questo grande narratore, tra i maggiori del Novecento, appassionato polemista, sempre animato da un’intensa passione civile, organizzatore culturale e strenuo traduttore di cultura francese e di altri paesi nel nostro panorama attraverso il quotidiano contatto con Elvira Sellerio, la grande editrice della casa palermitana, benemerita della cultura novecentesca (non a caso il presidente della Repubblica la nominò, nel 1989, Cavaliere del Lavoro).
Alle innumerevoli analisi, ricche di fini interpretazioni dei diversi aspetti di una personalità così poliedrica quale è stata quella di Sciascia, intendo aggiungere il mio omaggio che è essenzialmente la rievocazione degli incontri che ho avuto con lo scrittore siciliano, che rappresenta uno degli uomini più intelligenti che io abbia conosciuto e che mi ha onorato della sua amicizia.
Ammiratore delle sue opere narrative (Le parrocchie di Regalpetra, 1955; Il giorno della civetta, 1961; Todo modo, 1974) e delle altre, in uno dei miei frequenti soggiorni palermitani chiesi ad Antonino Buttitta, con il quale ho avuto un cinquantennale sodalizio intessuto di convergenze e amicizia, di incontrare lo scrittore siciliano, che sapevo essere suo amico. Era il giugno 1978 e Sciascia era nel suo buen retiro a Racalmuto, dove ogni anno si recava per procedere alla stesura di una sua opera, che poi consegnava puntualmente alla fine dell’estate all’editore, perché procedesse alla pubblicazione della novità.
Sciascia fu cordiale e ospitale, da antico gentiluomo siciliano; ci invitò a cena, le cui pietanze, tradizionali, erano preparate dalla gentilissima moglie, accorta e mite padrona di casa. In quel periodo Sciascia era, per così dire, nell’occhio del ciclone, per le sue posizioni contro corrente sul caso Moro. Il suo articolo “Né con lo Stato, né con le BR” aveva diviso il campo dei suoi lettori e non era stato gradito al Partito comunista, che pure lo aveva fino ad allora annoverato tra i suoi fiori all’occhiello. Renato Guttuso, sempre ligio alle posizioni del PCI, giunse alla rottura con l’amico, anche perché non se la sentì di confermare la ricostruzione di una vicenda che li aveva visti protagonisti. «‘Colpevole’ di capire le cose con troppo anticipo» come nota oggi Felice Cavallaro nel suo bel Sciascia l’eretico. Storia e profezie di un italiano scomodo (Solferino, 2021).
Aldo Moro, dunque, allora presidente del Consiglio e potente leader democristiano, fu rapito dalle Brigate rosse, che lo tennero prigioniero, per trattare il suo rilascio alle migliori condizioni per i terroristi. Moro scrisse moltissime lettere sia ad autorità che a compagni di partito, i quali, a suo avviso, potevano mostrarsi disponibili alla trattativa, che lui, mediatore per eccellenza, intendeva avviare, rendendosi così protagonista del suo auspicato rilascio. Al loro apparire si verificò un coro di dichiarazioni di autorità e di compagni di partito, che affermarono di non riconoscere nel prigioniero le doti di uomo di Stato che lo avevano caratterizzato da libero, per cui ritennero che le sue richieste non potessero in alcun modo esser prese in considerazione perché a lui strappate mentre si trovava in stato di cattività.
Sciascia, mettendo a frutto il suo eccezionale acume filologico, dall’analisi delle lettere ricava la convinzione che Moro, per quanto prigioniero, è sempre lucido, e si conferma ancora una volta mediatore come lo è stato sempre nella sua carriera di politico.
Scrive queste sue considerazioni in un volume, L’affaire Moro, che l’amica Elvira Sellerio pubblicò prontamente, con notevole successo.
Con i diritti d’autore di tale volume, Sciascia decise di istituire una borsa di studio per la migliore tesi di laurea sulla prigionia di Moro, svolta in università italiane. Il giudizio venne affidato a una commissione di cui Sciascia volle io fossi il presidente, mentre ne faceva parte anche, con la sua impetuosa autorevolezza, Antonino Buttitta.
Assegnammo tale premio e io ancora una volta fui grato a Sciascia per questa ulteriore manifestazione di stima e simpatia.
Signum contradictionis, gli articoli di Sciascia venivano contesi dai giornali, “Repubblica” prima, successivamente “Corriere della Sera”, erano solleciti nell’essere tribuna e cassa di risonanza delle opinioni dello scrittore.
Quella sera, a casa sua in campagna, Sciascia raccontò una serie di aneddoti, aggiungendo tante considerazioni che l’indomani lessi sul quotidiano. Rafforzato da tale familiarità, proposi proprio al “Corriere della Sera”, cui allora collaboravo, un’intervista a Sciascia e la proposta venne accolta, mi sembrò, con entusiasmo. Chiesi a Sciascia se accettava di rilasciarmi un’intervista e lui stesso mi propose di scrivere le domande che pensavo di fargli e di lasciarle a Elvira Sellerio, alla quale avrebbe dato per iscritto le risposte.
Così avvenne, con signorile puntualità. A proposito del rapporto Sciascia-Elvira Sellerio, vorrei ricordare che assieme scoprirono come narratore Gesualdo Bufalino. Questi aveva scritto un’introduzione a un libro di fotografie dei siciliani Gioacchino Iacono e Francesco Meli (Comiso ieri. Immagini di vita signorile e rurale, Palermo, Sellerio, 1978) e Sciascia, avendo apprezzato tale scritto, ne parlò con Elvira Sellerio; entrambi pensarono che un tale autore potesse avere un romanzo nel cassetto: allora gli telefonarono, convincendo il medico, ormai 60enne, a inviarglielo per la pubblicazione.
Venne così fuori Diceria dell’untore (iniziato nel 1960, ripreso dall’autore nel 1971, pubblicato nel 1981). È ancora impresso nella mia memoria un incontro avvenuto con Bufalino, nel 1983, durante il quale mi parlò con cordiale ammirazione de Il ponte di San Giacomo, che avevo di recente pubblicato con Mariano Meligrana.
Trasmisi il tutto al giornale e nei giorni seguenti attendevo che venisse pubblicata; invece, i giorni scorrevano e dell’intervista, pur concordata, neppure l’ombra. Dopo parecchio tempo mi convinsi che per misteriose, per me, ragioni, non lo sarebbe stato mai e la pubblicai su “L’Ora” di Palermo, cui collaboravo sistematicamente e su “Quaderni calabresi”. Sciascia poi la volle inserire nel volume di interviste che la giornalista francese Marcelle Padovani, preparò, con la sua guida; lei stessa pubblicò, nell’agosto 1989, La Sicilia come metafora, mutuando il titolo da un’espressione dello scrittore.
Sciascia venne eletto nel 1978 Deputato nelle liste del Partito radicale; andai a trovarlo a Roma nell’Hotel Nazionale, dove lui alloggiava nei suoi soggiorni romani, perché prossimo a Montecitorio. Mi invitò a colazione, assieme a Lia Pasqualino, la figlia di Antonio e di Janne Vibaek, con cui avrei passato deliziose ore per i musei e per le piazze di Parigi. Domandai a Sciascia, come trovava il Parlamento italiano. Mi rispose che i deputati non erano né peggiori né migliori degli elettori da cui erano stati scelti. Espressione che potrebbe apparire qualunquistica, ma che invece riflette ancora una volta l’acutezza dello sguardo di un intellettuale per molti versi unico, come è stato, nel secolo scorso, Leonardo Sciascia.