Nel cuore profondo del sud le tarantelle di Basilicata

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Le vie dei passi danzanti

Attraversare  le tante terre di danza in Italia

1. Un laboratorio speciale di osservazione

La Basilicata è l’unica regione ad essere denominata con un doppio lemma: Basilicata e Lucania. Quest’ultimo termine, di chiara provenienza greco-latina, va riferito ad un’area socio-culturale più ampia, comprendente anche il Cilento, la valle del Sele, il Vallo di Diano e l’intero massiccio del Pollino sino alla piana di Sibari, per l’omogeneità di aspetti coreomusicali, narrativi, culinari e magico-religiosi. Mentre sul piano linguistico - importante tratto d’identità culturale – la Lucania risente delle influenze pugliesi a oriente (Materano e Melfitano), napoletane a occidente e calabresi sul versante meridionale del Pollino.

Nella storia delle scienze demoetnoantropologiche la Basilicata ha occupato un ruolo di estrema importanza: nel corso del XX secolo la sua cultura tradizionale ha attratto numerosi etnografi ed intellettuali che vedevano nelle sue pieghe più recondite le “Indie di quaggiù”, un mondo arcaico poco noto e “meraviglioso”. Levi, De Martino, Carpitella, Lomax, Scotellaro, Bronzini, Spera, Milillo, Mirizzi, ecc. hanno osservato secondo varie angolazioni e competenze la vita tradizionale lucana, così come vari cine-documentaristi hanno prodotto numerosi lavori filmici esaltando gli aspetti più stupefacenti quale retaggio di un mondo magico-religioso che si credeva perduto.

Questa regione è stata vista come un mondo fermo nell’evoluzione storica dell’Occidente. Chiaramente così non era, quell’arretratezza sistemica della sua società e dell’economia aveva delle cause e risultavano meno visibili che altrove le sue trasformazioni sotto traccia.

Ma è pur sempre vero che, nonostante le varie ondate di emigrazione delle genti lucane, le varie riforme agrarie, la costruzione di infrastrutture, e poi l’arrivo del turismo e di una moderata industrializzazione, la Lucania ha rappresentato sino agli anni ‘80 del ‘900 un’area di maggior attaccamento alle proprie radici.

Le asprezze della vita agropastorale – principale risorsa per secoli dell’economia lucana - risiedevano in numerosi fattori endogeni, dalla conformazione del territorio prevalentemente montano, agli strascichi di una mentalità di sudditanza derivante da secoli di spadroneggiamento latifondista, dall’emarginazione del processo industriale, da una scarsa presenza costruttiva dello Stato e da un individualismo di sopravvivenza che caratterizzava molti paesi del Meridione. Terremoti, brigantaggio, emigrazione, scarsità di risorse naturali, svuotamento dei paesi e tessuti socio-artigianali dilaniati si sono intrecciati con i primi insediamenti industriali, con l’estrazione di idrocarburi e, più di recente, il promettente turismo di un sud nascosto e poco noto sono altri addendi che completano un quadro comunque complesso, ma che spiegano perché la sopravvivenza di credenze, feste, devozioni e pratiche espressive abbiano resistito più a lungo che nelle stesse aree più trasformate del medesimo Mezzogiorno.

2. Beni espressivi fra conservazione e questioni di tutela

La Lucania è stata una delle aree più perlustrate anche nella mia indagine etnografica ed è stata quella fra le più appaganti di risultati e rinvenimenti, tanto da poterla definire una ricca miniera di usanze antiche tramandate di generazione in generazione. Soprattutto la zona del Pollino sembrava essere agli inizi degli anni ‘80 in una sorta di macchina del tempo che ci portava in epoche temporali già trascorse. La presenza di molte “feste lunghe”1 della religiosità popolare, alcuni carnevali e l’apparato di questue musicali, serenate, processioni, laboratori di zampogna, passate economie pastorali e gastronomie rurali contribuivano a conservare un senso antico della festa. Sopravvivevano ancora ampi spazi di autogestione dal basso della sfera devozionale, con cui la Chiesa ufficiale doveva scendere a compromessi e tra le quali si intrecciavano reciproche tolleranze. Vedere alcune grandi feste mariane con accorso di molti devoti di vari comuni restituiva agli occhi dell’osservatore etnografo un senso di ricchezza gelosamente trattenuta dalle famiglie e dalle comunità montane. Infatti la presenza di decine di suonatori in tali feste religiose, la loro committenza per l’accompagnamento di statue, oggetti simbolici del culto o compagnie di pellegrini, la tenacia della peregrinatio degli zampognari sotto Natale, la vendita di zampogne e tamburelli prodotti dalle piccole botteghe artigiane della zona, il ballare per devozione in chiesa o durante le trionfali processioni sacre, i canti monodici e polifonici ancora in possesso dei devoti, la ricchezza di capacità tecnica di suonatori tradizionali, la resistenza della tradizione culinaria, ecc. incutevano nel documentarista un’euforia di abbondanza patrimoniale e, nel contempo, la certezza di una spontanea auto-conservazione della cultura lucana.

Ma lo scorrere degli ultimi decenni ha evidenziato – con la scomparsa delle vecchie generazioni – molte erosioni, perdite e cambio dei bisogni e dell’espressività delle nuove generazioni. Quell’appagante sensazione di trovarsi in una riserva indiana tenace e culturalmente persuasa e fiera, nel corso degli anni successivi si è rivelata errata. Anche la società lucana cambia e si assimila al processo di globalizzazione dei modelli di vita e delle espressioni culturali. Quindi anche per la Basilicata si pone l’urgenza di una preservazione di tali beni comuni e di una politica di valorizzazione e tutela della cultura agropastorale arcaica e di una gestione dal basso degli adattamenti e di nuove creatività.

3. Contenitori e situazioni della danza etnica lucana

La conservazione di un bene fragile e delicato come la danza tradizionale dipende molto dal perdurare dei contesti coreogeni. Le espressioni coreo-musicali nella tradizione sono ontologicamente funzionali, ossia devono “servire” a qualcosa, a qualcuno o a situazioni sociali e religiose. In altri termini sono i contesti propri a trainare e sostanziare il bisogno del danzare secondo codici cinesici provenienti e appresi dalle precedenti generazioni.

La festa è senza dubbio il contesto privilegiato della danza. La nostra ricerca, infatti, ha dato priorità sin dagli inizi ad un particolare genere di festa religiosa con pellegrinaggio e sosta dei devoti nell’area sacra.

«Le feste religiose arcaiche in Lucania sono rimaste in alcuni casi “feste lunghe” basate sul pellegrinaggio e sulla permanenza e almeno un pernottamento nei dintorni del santuario. Tali complessi contenitori di eventi rituali prevedono un particolare sistema organizzativo, delegato spesso alle compagnie di pellegrini strutturate gerarchicamente con cariche (con ruoli detti secondo le usanze priore, procuratore, capo-compagnia, presidente, segretario, tesoriere, ecc.) e con fisionomie di prestigio, come quelle dei suonatori, che per tanti anni accompagnano gli stessi gruppi secondo un rinnovato patto di fedeltà e di collaborazione professionale2».

Le grandi feste sono un apparato ideale per l’insorgenza delle occasioni di danza etnica, perché comprendono in esse fasi diverse e complesse del sistema festivo: i momenti di socializzazione fra i partecipanti e la conseguente convivialità enogastronomica creavano una condizione integrata del piacere del corpo, dal palato all’ascolto di canti e musiche e al conseguente movimento ritmico, stimolato peraltro dall’euforia etilica provocata del vino.

Le “feste lunghe” religiose possono svolgersi in una sede fissa (spesso nel paese o presso il santuario) o in doppia fase assecondando tempi e spazi del sacro quando si basa sulla traslazione dell’effige religiosa.

«Diverse di tali sacre traslazioni ancora oggi si manifestano con un composito apparato devozionale fatto di preparazioni accurate di addobbi, di trasporto - talvolta danzato - della cinta3, della gregna4 o dello stendardo, di offerte in natura o in denaro, di vari riti penitenziali5, di ex-voto, di presenza di suonatori come singoli devoti od organizzati in compagnie di pellegrinaggio, di riffe6, di danze processionali lungo il percorso o stanziali nelle adiacenze del santuario, di abbigliamenti imitativi, di fiere e di quant’altro la religiosità popolare abbina alla sfera del sacro . Si conservano anche un’antica concezione del baratto e l’esercizio del “voto” per richiedere la grazia o per grazia ricevuta. Sono forme di scambio (l’antica concezione del do ut des tra umano e divino) o di tacita speranza di accordo col soprannaturale per ottenere favori ed intercessioni3».

Accanto alle feste devozionali calendariali, vanno segnalati alcuni Carnevali in cui sono previste esecuzioni coreutiche o cortei ritmici delle mascherate. Altre occasioni privilegiate sono le feste dei maggi arborei, l’uccisione del maiale, le feste patronali e le feste nuziali e di fidanzamento. Su tale scansione tradizionale delle feste arcaiche, si sono innestate da alcuni anni i nuovi appuntamenti di consumo, organizzati dalle istituzioni o agenzie private come le sagre commerciali, le fiere agricole e artigianali, i festival di musica popolare e nuove iniziative ludiche e aggregative.

4. I tesori etnomusicali ed etnocoreutici raccolti

La rilevazione di Pino Gala in Basilicata è cominciata nel 1979 dai repertori canori nei comuni dell’area del Vulture, dove subito emerse la ricchezza di generi che si era mantenuta mnemonicamente più radicata rispetto all’adiacente area pugliese. Dal 1981 l’attenzione si rivolge alla fabbricazione degli strumenti e alla documentazione del vasto repertorio di danze etniche ancora in funzione nella regione.

Sul piano più specificatamente etnomusicale, la Basilicata ha conservato alcune botteghe artigiane di fabbricazione di aerofoni: zampogna lucana4, surdulina5, ciaramelle6 e vari flauti di canna. Inoltre vi sono diversi costruttori di idiofoni: tamburelli, castagnole, cupa cupa7, ecc.

Ancor più sorprendente e ricca di risultati è stata l’indagine etnocoreutica in Basilicata: sono state reperite testimonianze assegnabili a tutti i generi coreutici tipici della tradizione italiana: danze ludiche, danze votive, danze armate, danze terapeutiche, danze iniziatiche, danze nuziali, danze-gioco, torri umane, ecc.

5. Il mondo della tarantella

A dominare il panorama etnocoreutico lucano è sicuramente la danza della tarantella. Sotto tale denominazione rientrano numerosi modelli con strutture coreografiche e cinesiche diverse, ma che hanno comunque un’omogeneità di posture e di stili espressivi corporali. Il termine “tarantella” ha finito col diventare un riferimento generico per indicare la maggior parte dei balli popolari e locali del Sud. In tal modo “tarantella” ha oscurato nomi coreutici precedenti, finiti nell’oblio, o articolazioni del ceppo principale, come pizzica pizzica, pizzicarella, pizzicarola, zomparello, , zumparola, tacchiatina, pastorale, pecurara, tarascone, saltarello, ecc.

Nella grande famiglia etnocoreutica della tarantella sono inglobati il ballo con le cinte, con le crocce o le mazze, con lo stendardo, il ballo con la falce, la tarantella della zita, ecc.

Da vari anni le tarantelle danzate nei modi tradizionali stanno regredendo e vengono sostituite dalla polka o dalla marcetta, balli legati che più assomigliano nell’esecuzione musicale alle tarantelle lucane, soprattutto se suonate dall’organetto, fisarmonica o plettri o strumenti da banda. Questo fenomeno di “pochizzazione” è presente anche in altre regioni: ciò è determinato dall’attrazione che sin dal XIX secolo esercitavano i balli legati di società degli ambienti aristocratici, poi discesi nella pratica festiva delle classi meno abbienti.

Le tarantelle lucane si suddividono in due sottogruppi: le tarantelle arcaiche staccate e le tarantelle figurate e comandate.

 

5A. Le tarantelle arcaiche a struttura aperta

Le tarantelle arcaiche sono quelle a trama semplice danzate con i ballerini staccati; esse sono in genere meno strutturate delle altre, basate sull’assimilata conoscenza del repertorio locale, appreso per imitazione visiva in genere sin dall’infanzia, ed eseguite su codici cinesici identitari della comunità di appartenenza, ma anche sulla composizione soggettiva dei danzatori nel realizzare il ballo a struttura aperta.

Appartengono a questo sottogruppo delle tarantelle lucane la maggior parte degli esempi reperiti. Ciascun modello locale si differenzia in genere di poco da quello del paese accanto, tant’è che un tempo quando le danze etniche erano vive e regolarmente praticate, dal modo di ballare gli abitanti dei paesi vicini riconoscevano la provenienza dei ballatori. In altre parole la danza locale era un linguaggio codificato dei corpi, così come accade ancora oggi nei linguaggi verbali dei dialetti: identificano la comunità di appartenenza delle persone.

Dal punto di vista dell’assetto coreografico e della tipologia di partecipazione al ballo, vi sono

- tarantelle di gruppo indefinito danzate in cerchio,

- tarantelle a quattro ballerini/e

- tarantelle in coppia.

Il genere dei danzanti non è così importante per la tradizione lucana: a ciascuno dei suddetti modelli di partecipazione si può partecipare indifferentemente senza una distinzione di sesso.

a) La tarantella in cerchio

Nella vasta area del Pollino e in altre poche zone disseminate della regione sopravvive il modello della tarantella in cerchio. Si tratta di una danza di gruppo su disposizione circolare, con più ballerini in ordine sparso di genere. Le modalità esecutive della versione in cerchio tendono ad essere semplificate e nettamente distinte, proprio perché accessibili a tutti, indipendentemente dall’età, sesso e stato sociale. La sua struttura coreografica si compone di:

- ballo frontale, tutti fermi sul posto e rivolti verso il centro eseguono dei moduli cinetici degli arti inferiori (passi) virtuosi a seconda delle preferenze locali: passo incrociato anteriore (posato e aereo), doppio passo puntato anteriore, appoggio e incrocio, appoggio e accostamento dell’altro piede su linea laterale.

- giro grande, i ballerini proseguono in fila circolare, partengo generalmente in direzione antisolare e quasi sempre cambiando dopo un po’ direzione in senso solare. Non c’è in genere un “mastro di ballo” o uno che comandi la figura, ma si va ad intesa, basta che qualcuno inverta la direzione gli altri seguono.

L’unica particolarità che la tarantella in cerchio ha soprattutto nel versante calabrese del Pollino, è quello di permettere ad alcuni ballerini il possibile scambio di posto con un altro/a compagno/a situato/a diametralmente opposto: pochi scambi durante il ballo frontale, ma non obbligatori, e poi si parte col giro. •

 

NOTE

1. Termine adottato da Annabella Rossi in Le feste dei poveri, Bari, Laterza, 1971.

2. Gala Giuseppe Michele, La tarantella dei pastori. Appunti sulla festa, il ballo e la musica tradizionale in Lucania, Firenze, Edizioni Taranta, 1999, pp. 6-7.

3. Ibidem, p.

4. Aerofono con sacca di pelle di capra per immagazzinare aria e determinare il suono continuo delle quattro canne ad ancia doppia: due canne di bordone, una canna destra di canto solista ed una canna sinistra di maggior grandezza per l’accompagnamento e il contrappunto.

5. Piccola zampogna a quattro canne ad ancia semplice.

6. Oboe prevalentemente ligneo ad ancia doppia.

7 Tamburo a frizione.