L’arte di fare il pane. Una storia antichissima che si intreccia con quella di un isola e della sua popolazione, fin dalla preistoria al centro di cambiamenti sociali.
Nella gara gastronomica di Cuochi in piazza, in occasione dell’evento nazionale Italia e Regioni svoltosi a Ravenna dal 22 al 25 settembre scorso, si sono confrontate le tradizioni culinarie della Toscana, della Lombardia e della Sardegna.
Di quest’ultima regione, oltre alle particolari pietanze del capretto cucinato in umido (cassoba) con sa fregua – una sorta di kuskus giunto nell’isola dall’Africa nord-occidentale con antichi influssi berberi –sono da evidenziare i pani e dolci cerimoniali realizzati da Lidia Licheri, con la collaborazione di Lidia Murtas, Luigina Angius e Maria Grazia Rapetti del gruppo folklorico Flumini Major di Fluminimaggiore, paese del Sulcis Iglesiente, un’area storicamente a tradizione mineraria abitata dai Maurreddus, una popolazione che emigrò dalle regioni algerine e marocchine delle montagne dell’Atlante in seguito alle invasioni dei Vandali prima e degli Arabi poi (V-VII sec.).
Non a caso l’abbigliamento tradizionale delle comunità del Sulcis rimanda, in modo evidente, a quello delle attuali popolazioni berbere dell’Algeria e del Marocco.
Lidia Licheri e le colleghe hanno realizzato il pane cerimoniale delle feste nel contesto del concorso preparando l’impasto così come era nella tradizione e utilizzando su frumentu, ovvero il fermento di farina che, nel passato, le massaie conservavano dalla panificazione precedente. Si tratta di un espediente particolarmente importante, in quanto evita di impiegare gli attuali fermenti artificiali a base chimica, usati attualmente nella panificazione industriale.
Tuttavia, ciò che caratterizza i pani di Lidia Licheri, non è soltanto la fragranza della pasta con la quale sono stati composti, ma sono soprattutto le loro forme plastiche, espresse da ricami e composizioni artistiche; si tratta di opere che confermano ancora una volta il titolo di un importante opera, Pani tradizionali. Arte effimera in Sardegna, curata, nel 1977, dal grande antropologo Alberto Mario Cirese, che ha insegnato Storia delle tradizioni popolari all’Università di Cagliari.
Enrica Delitala, che ha collaborato con Cirese ad una vasta ricerca sulla panificazione in Sardegna e nel 1973 è subentrata nello stesso insegnamento universitario, nell’introduzione al catalogo della mostra In nome del pane.
Forme, tecniche, occasioni della panificazione in Sardegna, allestita nel 1991 per conto dell’I.S.R.E. di Nuoro, scrive «che da tempi remoti il pane è stato il cibo basilare dell’alimentazione dei Sardi, così come di molti altri popoli mediterranei; tuttavia, in Sardegna, il ciclo della panificazione domestica si presenta con un’incisività ed una persistenza che non hanno molti riscontri altrove.
Il processo di trasformazione dei cereali in prodotto finito (cioè la sequenza grano-farina-impasto-pani modellati e cotti) è in ogni sua fase vario ed elaborato sia nelle tecniche, sia nel lessico, sia nelle occasioni di preparazione e nelle destinazioni d’uso del pane.
La varietà è ravvisabile già all’atto della scelta del cereale e della farina con cui comporre l’impasto: prevalentemente farine di grano duro; ma anche farina d’orzo, ed anche, in un’area ristretta, macinato di ghiande; e farine con alta percentuale di crusca e via via sempre più depurate; ed ingredienti aggiuntivi quali patate, ricotta, grassi, olive …..
Lungo una scala di valori si ponevano anche i vari tipi di macinato, tutti utilizzati in obbedienza a rigidi principi di economia domestica: lo scarto, la crusca, era adoperata per le pulizie o altri usi non alimentari; crusca quasi integrale ed altri residui non panificabili per l’uomo integravano il mangime degli animali da cortile o, impastati e cotti, diventavano una pagnottina destinata ai cani.
Venivano poi le farine via via più depurate e ritenute pregiate. A ciascuna corrispondeva un tipo di pane con caratteri morfologici, destinazione d’uso, modalità e occasioni di preparazione e consumo che rinviavano a specificità dell’organizzazione sociale e culturale: i proprietari, le famiglie di condizione più agiata, generalmente avevano un pane più giornaliero per la propria mensa ed un pane per i servi; i pastori avevano pani di lunga durata; l’estate e l’inverno erano distinguibili anche in base al pane d’uso quotidiano; ed avevano un trattamento particolare i vecchi, i bambini, le puerpere, gli ammalati.
C’erano i pani per i mendicanti, di fattura semplice e di farina non raffinata; c’erano pani per le nozze o per le feste del patrono, di semola, incolori e con la superfice lucidata, modellati e decorati con grande perizia …occorre aggiungere i pani da non mangiare ma da conservare come simbolo di un avvenimento, come talismano, come strumento di medicina empirica» (pp. 13-14).
Se in Sardegna storicamente si è formata una particolare tradizione nella panificazione dipende dal fatto, come sostengono i paletnologi, che l’isola si è trovata al centro della rivoluzione produttiva cerealicola avvenuta nei paesi mediterranei, nella lontana preistoria; infatti, con il passaggio dall’esclusivo allevamento animale, nel quale per alimentare la popolazione esisteva il rischio di dover mangiare il gregge o la mandria e poi morire di fame, gli uomini sono giunti a scoprire l’allevamento dei cereali, tra i quali c’è il grano, facilmente conservabile per momenti di crisi e di necessità alimentare come nei mesi invernali.
Da qui, con una più facile e ricca alimentazione, si è arrivati ad ottenere un particolare aumento demografico e una conseguente disponibilità di forza lavoro che ha consentito la realizzazione di grandi costruzioni megalitiche come i nuraghi, le piramidi e altri maestosi monumenti di epoca preistorica.