Il febbraio 2020 ha segnato la nascita ufficiale della pandemia da Covid-19, dalla quale siamo, forse, faticosamente uscendo, anche se molto dipenderà dai nostri stessi comportamenti. Nel periodo appena trascorso abbiamo conosciuto, in forma altalenante, momenti di paura, di sconforto, di resilienza, di speranza. Con enormi perdite – è giusto sempre ricordare, noi superstiti, quanti non ce l’hanno fatta – abbiamo comunque acquisito alcune certezze, che potrebbero esserci utili per una effettiva, nuova partenza.
Abbiamo scoperto la nostra fragilità, la nostra paura dell’isolamento – che è cosa diversa dalla solitudine, che può essere anche voluta, come momento di pausa, di concentrazione –. Per cui ora sappiamo che l’io è insufficiente se non c’è un tu al quale rapportarsi, per trascendersi, ambedue, del comunitario noi, che rifonda la società, costituendosi come comunità. Una vastissima letteratura scientifica socio-antropologica ha affrontato questi temi, dilatando così la nostra consapevolezza critica.
Riscopriamo che alcuni valori, che avevamo troppo sbrigativamente accantonato, forse perché apparentemente obsoleti, sono in realtà fondanti la civiltà occidentale e non solo essa: la generosità, la solidarietà con l’altro, l’identità che si rapporta all’alterità, come suo indispensabile correlato dialettico e così via. In questa prospettiva potremmo scoprire la sempiterna validità di Cuore e dei meccanismi narrativi di Edmondo de Amicis, sui quali acutamente si sofferma Marcello Fois nel suo L’invenzione degli italiani. Dove ti porta Cuore (Einaudi, 2021).
Avvertiamo anche, dopo tanto doloroso isolamento, il bisogno di abbracciare l’altro, toccarlo, iniziando con lui l’ascesa alla vita che riprende, divenendo gioia, inno alla libertà, danza dell’insopprimibile volontà di vita che rinasce dalle macerie, come le radici che rompono il cemento dei marciapiedi, per affermare che la vita non può che celebrare se stessa, il suo tendere a perpetuarsi.
Nella danza che i gruppi folkloristici perpetuano interpretando, a loro modo, la tradizione, vi è, credo, questo gioioso inno alla vita, questa sua solenne, irrinunciabile celebrazione.