Le tradizioni del natale in Campania
Malgrado l’azione di persuasione e condizionamento di intere generazioni da parte del web e dei social network sul modo di vivere, sulle abitudini, le usanze, le tradizioni, nonostante il dilagare di riti e folklore del nord Europa o dell’America, in Campania, fortunatamente, persistono ancora tradizioni consolidate da secoli di storia popolare. Tradizioni «viva voce tradiderunt», trasmesse a voce, di casa in casa, di focolare in focolare, di padre in figlio, custodite come patrimonio prezioso, ricchezza immensa quali possono essere le radici di un popolo; tradizioni sopravvissute alla globalizzazione che vedranno la luce almeno fino a quando resteranno in vita i nostri nonni o chi per studio o passione non è disposto a sacrificare i propri figli all’altare di nuovi Dei. Certamente le tradizioni del periodo dell’Avvento occupano un posto di privilegio, la nascita di Gesù, nel nostro paese, patrimonio della cultura classica, latina, ricco di leggende, storia e tradizioni, non può avvenire come nel resto del mondo. Questo Bimbo povero «il Ninno» che nasce sulla paglia di una mangiatoia, viene ad essere il simbolo di tutta la povera gente, che intravede in quel Bambino il riscatto alla propria triste condizione sociale.
E allora, forse si riesce a percepire, il perché le giornate che precedono il Natale, in Campania ed in particolare a Napoli, oltre ad avere qualcosa di mistico e di magico, sono ricche di suoni di voci, perché no, un pizzico di sana superstizione.
Giornate ricche di religiosità, ma allo stesso tempo vivaci, colorate, e all’attesa per la nascita del Salvatore, accompagnata inevitabilmente dal suono delle ciaramelle e delle zampogne, si associano tra l’odore dell’incenso, allegre scene popolari, quasi profane, fatte di dispense ben fornite, focolari sempre accesi, di giochi con le carte e con la tombola, e di folkloristiche botteghe e taverne che espongono ogni ben di Dio, nelle creazioni multicromatiche delle loro «parate» ricche esposizioni, delizia per gli occhi e per il palato.
Le feste della Natività di Gesù, nella tradizione popolare, sono legate alla chiusura di un ciclo stagionale e all’apertura di un nuovo ciclo per cui la religione cristiana si intreccia con feste e riti legati al mondo rurale. Il messaggero S. Andrea apostolo, che si venera il 30 novembre, è delegato ad introdurre le feste, le nonne, recitano ripetutamente ai nipotini semplici versetti fino a farglieli imparare a memoria: «Sant’Andrea porta ‘a nova, alli sei è San Nicola, alli otto è di Maria, alli tridice di Lucia, alli vintunu San Tummaso canta: Lu vinticinche è la Nascita Santa!»
Come si può facilmente constatare la prima festa tradizionale è quella di San Nicola 6 dicembre. Le tre sere precedenti questa ricorrenza, al suono delle campane annuncianti il termine delle funzioni religiose, ogni famiglia accende un piccolo ceppo con pezzi di legno resinoso di pino, il pastore prepara i primi latticini con il latte delle «primarole», le pecore di primo parto e, come ricordano gli anziani: «A San Nicola, ogni mandria ha fatt’‘a prova!».
La seconda festività del mese di dicembre è quella dedicata all’Immacolata, una festa dalle origini lontanissime, da questo giorno inizia anche la conta dei giorni che mancano per arrivare a Natale: «Mmaculata Cuncett’ ‘a Natale diciassette», mancano appunto 17 giorni al Natale, ed è tradizione iniziare gli addobbi natalizi e i primi elementi per il presepe. L’allestimento del presepe, in molte famiglie, conserva ancora il sapore di una volta: le mani diventavano, improvvisamente esperte, seguendo un canovaccio, tessuto coi dettami della memoria storica. Ed è un fermento che vede prendere vita, creatività e cultura popolare, usanze e fede, in un armonico connubio che crea tuttintorno un’aura di innocente bontà, una magica atmosfera, in cui passato e presente non sono in antitesi, ma, anzi, si armonizzano fino a rendere vivi i valori del Natale.
La cultura popolare prende il sopravvento su tutto dando un tono di serenità all’ambiente, sprigionando gioia per tutto il periodo delle feste. Tutto deve essere costruito secondo la tradizione, rispettando le figure fondamentali del presepe, figure che vanno molto al di là della tradizione popolare, rappresentando una sintesi della realtà dal forte valore teologico il cui significato rimanda al complesso cammino spirituale dell’uomo.
Ed ecco che lo «scoglio» (struttura portante del presepe) ora in sughero, ora in alabastrino o in cartone, con il suo consueto colore scuro è già un segno legato al mistero, la «stalla» col bue e l’asinello simboleggia la natura istintiva e impulsiva dell’uomo, il «fiume» un altro elemento sempre presente nel presepe rappresenta la sacralità dell’acqua che scorre segno presente in tutte le mitologie legate alla morte e alla nascita divina. A primeggiare nella simbologia è certamente la grotta che può considerarsi come il confine fra le tenebre e la luce, si trova sempre alla fine di un percorso tortuoso ed insidioso. Mani di semplici appassionati dei papà, dei nonni, di bambini, ma anche di grandi artisti, con grande devozione, si apprestano a costruire il presepe, dallo scoglio ai pastori fino alle preziose minuterie presepiali, che non fanno rimpiangere certamente quelle più famose del ‘700 napoletano. Oltre al presepe realizzato nelle case, si può ancora, con gioia assistere in ogni angolo della Campania al Presepe Vivente, da Benevento (Pietrelcina), a Napoli (Gragnano), passando per Avellino(Gesualdo), una rievocazione in abiti storici della nascita del Salvatore e alla famosissima «Cantata dei Pastori» rappresentazione teatrale in tre atti con origini risalenti alla fine del Seicento opera di Andrea Perrucci, commediografo siciliano.
La rappresentazione, con il nome originale di «Il vero lume tra le ombre, ossia la nascita del Verbo Umano», nacque nel periodo della Controriforma ed intendeva celebrare la Natività di Gesù, ed in passato era un appuntamento fisso, tanto atteso in prossimità delle feste. All’ombra del Vesuvio la commedia, per meglio far comprendere il messaggio pastorale, si arricchisce di personaggi popolari, primi fra tutti Razullo e Sarchiapone e la bella favola assume un carattere più paesano tra il sacro ed il profano. Alla vigilia di Natale in ogni casa, una volta ripulite le imbandite tavole ci si appresta a giocare a tombola: si tira fuori il Panariello con la sua classica forma a Vesuvio, il tabellone, le cartelle e si inizia a giocare usando i gusci di frutta secca per coprire i numeri che di volta in volta vengono estratti. La nascita del gioco della tombola si fa risalire ad uno storico litigio tra il re di Napoli, Carlo III di Borbone e il frate domenicano Gregorio Maria Rocco nel 1734, per la disputa intorno alla legalizzazione e al crescente dilagare del gioco del lotto. Il Re decise allora, visto i forti contrasti con la Chiesa, di vietare il gioco durante le feste di Natale, i napoletani legati in modo spasmodico al gioco, si inventarono allora, un gioco molto simile al lotto da potersi fare in famiglia «La Tombola».
In queste giornate già molto vivaci, la tombola, in alcuni quartieri diventa «scostumata» un uomo travestito da donna con movenze femminili, considerato portatore di buona «ciorta» (sorte), basandosi sulla smorfia napoletana estrae i numeri dal Panariello li concatena tra di loro creando storie sempre diverse con battute ed allusioni piccanti. La smorfia viene associata alla cabala ebraica: si tratta della pratica di associare i numeri in forma mista ed esoterica alle rappresentazioni più svariate della realtà per interpretare i significati nascosti degli eventi e dei sogni, il nome smorfia, spesso è associato a quello di Morfeo, che nella mitologia è il Dio dei sogni. Oggi la tombola scostumata è diventata una forma di spettacolo, in passato era riservata ad un gruppo ristretto di persone, magari dello stesso quartiere, ma soprattutto ai «femminielli». Nelle sere che precedevano il Natale ci si riuniva in un basso e, riscaldati da un braciere, si aspettava il Natale con il gioco della tombola. I femminielli potevano finalmente essere sé stessi.
Il Bambino nasce quindi nelle rappresentazioni teatrali, nel presepe vivente, ma soprattutto nelle famiglie, dove la Natività è devozione: pochi minuti prima della mezzanotte del 24 dicembre, in tutte le case si prepara la processione per accompagnare il «Bambinello» nella grotta del presepe preparato con tanta devozione. Il più piccolo della casa reca in mano la statuina di Gesù Bambino rigorosamente benedetta durante le funzioni religiose, e al canto di «Tu scendi dalle stelle», e allo scintillio delle «stelline» di innocui fuochi pirotecnici, lo fa baciare a tutta la famiglia prima di deporlo sulla paglia della mangiatoia. È un semplice ma profondo gesto, che raccoglie l’amore della famiglia dinanzi alla grotta e lo offre, come dono a Gesù.
Contemporaneamente alla nascita del Salvatore, scoccava, e in molte realtà rurali scocca ancora, il momento per trasmettere il «sapere». Le anziane donne guaritrici tramandano alle figlie femmine l’antica e misteriosa arte di guarire o proteggere una parte malata del corpo, ma anche per superare le paure e le ansie della vita quotidiana. La trasmissione consiste nel tramandare frasi e formule magiche da ricordare a memoria con la raccomandazione di non rivelarle a nessuno altrimenti la formula perde l’efficacia, e soprattutto di non accettare mai soldi o regali da chi chiede di essere assistito. Ed è questa l’essenza di un popolo, che sente fortemente le proprie radici e guarda ancora con occhi incantati questo «Ninno», tra fede e superstizione, inchinandosi dinanzi al mistero della manifestazione di Cristo, il Verbo fatto carne re e servitore, regalità e umanità, che profonde luce ne cuori, nelle menti, e nel mondo, come scrisse Sant’Alfonso de’ Liguori nel suo componimento in vernacolo, composto nel 1799: «Quanno nescette Ninno... era nott’’e parea miezojorno, nun c’erano nemice pe’ la terra la pecora pascea co’ lione ‘e co’ lu lupo ‘mpace ‘o pecoriello».