Tempo d’oggi

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Uno degli effetti letali del virus, che tanta devastazione e morte sta portando nei nostri giorni, sempre più desolati e derelitti, è il progressivo impoverimento del linguaggio, a vantaggio di stereotipie verbali, che sostituiscono i pensieri, avendone di essi soltanto la parvenza. Così si ripete continuamente che “non bisogna abbassare la guardia. Non dobbiamo disperdere ciò che siamo riusciti a ottenere con tanti sacrifici” e ognuno lo ripete all’altro, come se idealmente ci fosse qualcuno disposto ad abbassare la guardia o disponibile a disperdere ciò che sinora si è ottenuto.

È il trionfo del luogo comune, delle stereotipie verbali, che uccidono il pensiero, si sostituiscono ad esso, si atteggiano a pensieri realmente pensati, quando ne sono soltanto una squallida imitazione.

Un altro effetto letale è il progressivo sfumarsi dei residui di pietà e solidarietà che ancora albergavano nel nostro animo, in una regressione che ci fa ritornare a un robusto egoismo, immemore di altre stagioni e di una sgomenta pietà.

Non potendo fare altro ci impegnamo spesso a immaginare come sarà il dopo, quale piega assumerà, quale modalità di relazione interpersonale farà instaurare, quale modello di società ci impegnerà a costruire. Diceva lo scrittore David Grossman, in un’intervista a “Repubblica” dello scorso marzo: «quando l’epidemia finirà, non è da escludere che ci sia chi non vorrà tornare alla sua vita precedente. Chi, potendo, lascerà un posto di lavoro che per anni lo ha soffocato e oppresso. Chi deciderà di abbandonare la famiglia, di dire addio al coniuge, o al partner. Di mettere al mondo un figlio, o di non volere figli. Di fare coming out. Ci sarà chi comincerà a credere in Dio e chi smetterà di credere in lui. La presa di coscienza della fragilità e della caducità della vita spronerà uomini e donne a fissare nuove priorità. A distinguere meglio tra ciò che è importante e ciò che è futile. A capire che il tempo e non il denaro è la risorsa più preziosa ci sarà chi, per la prima volta, si interrogherà sulle scelte fatte, sulle rinunce, sui compromessi. Sugli amori che non ha osato amare. Sulla vita che non ha osato vivere. Uomini e donne si chiederanno perché sprecano l’esistenza in relazioni che provocano loro amarezza. Ci sarà forse chi si domanderà perché israeliani e palestinesi continuino a lottare e a distruggersi la vita a vicenda da oltre un secolo, in una guerra che avrebbe potuto essere risolta da tempo. Ci sarà forse chi, osservando gli effetti distorti della società del benessere, si sentirà fulminato e nauseato dalla banale, ingenua consapevolezza che è terribile che ci sia gente molto ricca e tanta altra molto povera. Che è terribile che in un mondo opulento e sazio non tutti i neonati abbiano le stesse opportunità. E forse anche i mass media, presenti in modo quasi totale nelle nostre vite e nella nostra epoca, si chiederanno con onestà quale ruolo abbiano giocato nel suscitare il generale senso di disgusto che provavamo prima dell’epidemia».

Ci piace pensare che da questa terribile esperienza usciremo, quando usciremo, migliori.

In realtà niente ci autorizza a pensarlo, anzi l’esperienza storica ci dice esattamente il contrario.

Non siamo diventati migliori, né ci siamo impegnati a costruire un nuovo modello di società, dopo la terribile epidemia della spagnola tra il 1918 e il 1920, che mietè centinaia di migliaia di vittime. Né, andando indietro nel tempo, vennero fuori migliori i nostri progenitori, né migliorò la società, quando, dalla metà del Cinquecento, la peste flagellò l’Europa per oltre due secoli.

A esso fu contrapposto, per molti versi vanamente, il culto di San Rocco, taumaturgicamente salvatore dal male.

In uno splendido colloquio con il nostro Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, Claudio Magris ha parlato di ‘fremiti di futuro’, affermando che “ci sono anche, in quel passato che non ha avuto modo di sviluppare, i semi che racchiudeva e non è detto che siano morti. C’è qualche cosa che la terra e il tempo possono conservare e fare rispuntare in un qualsiasi momento. Sono profondamente convinto che se il seme di qualcosa non muore, può dover aspettare molto, sembrare morto, e magari rispuntare più in là. Credo molto in questa ungleichazeitigkeit (= non-contemporaneità, non-simultaneità). Il fatto che lo dicesse Bloch è indicativo. Anche lui infatti aveva il senso di quello che Hegel chiamava la “furia del dileguare”, ma riteneva che tutto in qualche modo continui a essere presente. In questo credo ci sia un potenziale rivoluzionario, che tuttavia può redimere l’umanità. L’utopia è il sale della terra, non l’utopia che pretende di essere la ricetta per cambiare il mondo, che può rivelarsi il peggiore strumento totalitario. Al contrario, mi riferisco all’utopia che sa che il mondo non è tutto là dove lo vediamo e come lo vediamo. Il più grande esempio è Don Chisciotte. Il quale sa che Ronzinante non è un gran destriero, ma al contempo sa che è anche un grande destriero; sa che Dulcinea è una rozza contadina, ma è anche convinto che l’amore della vita, e dunque pure di Dulcinea, ha quelle luci, quel chiarore, quel significato di cui, in quel momento, sembra totalmente priva. Non tutte le crisalidi diventano farfalle, ma sapere che esiste questa possibilità è il vero realismo, il senso autentico della complessità della realtà” (La Lettura, “Corriere della sera”, n. 470, 23 novembre 2020). 

A proposito di fiaba invece, vorrei ricordare quanto elaborato con Andrea Costa, presidente del Comitato Roma150, e un gruppo (me compreso) – del quale fanno parte anche la prof.ssa Annamaria de Majo, dell’Università di Roma e Paola Sarcina, presidente dell’Associazione Music Theatre International –: si tratta di un progetto che prevederà tra l’altro l’invito rivolto a 10 bambini di diversa età scolare a scrivere una fiaba come se dovessero raccontarla alla loro migliore amica o amico e a 10 studiosi o scrittori a scrivere una fiaba inventandola anche sulla falsa riga della tradizione. Il tutto, con un mio saggio introduttivo, sarebbe pubblicato a mia cura in un volume edito dalla stessa fondazione Treccani, data la predisposizione favorevole dimostrata dall’attuale direttore Massimo Bray, neo assessore alla cultura della Regione Puglia.

Fra non molto è Natale. Entreremo in un tempo sospeso, in una dimensione magica, fiabesca. A noi, che siamo assetati di bellezza e di incanto, è possibile inventare una fiaba in cui ritroviamo quella felicità e quella libertà che il nostro tempo feroce implacabilmente ci nega.

Penserei, pertanto, di invitare tutti i lettori di ‘Folklore d’Italia’ ad inventare una fiaba come se dovessero narrarla a un piccino di casa, loro familiare; ne verrebbe fuori forse una raccolta significativa delle nostre aspirazioni, dei nostri sogni, magari troppo a lungo taciuti, sino ad averli del tutto obliati.

Per il prossimo tempo natalizio, dunque, possiamo far finta di voler essere solidali con tutti gli altri umani; divenire davvero uomini di buona volontà. E, una volta tanto, impegnarci per far diventare realtà la buona intenzione, evitando, così, di produrre lastrico per l’inferno.