Ti conosco, mascherina!». L’espressione scherzosa ha risuonato in innumerevoli Carnevali, anche quando il volto del mascherato non era stato riconosciuto e si tirava a indovinare. La maschera copriva il volto, celando l’identità e rendendo possibile quel ribaltamento dei ruoli e delle condizioni sociali che è tipica dell’istituzione carnevalesca.
Si pensi alla fondamentale opera di Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare (Torino, Einaudi 1979) e per quanto riguarda l’Italia, la poderosa indagine di Paolo Toschi, Le origini del teatro italiano (Torino, Boringhieri 1976). Innumerevoli Carnevali si addensano nella mia memoria, da quando bambino assistevo incuriosito, nella mia San Costantino di Briatico, paese natale e antica dimora della mia famiglia, ai mascherati che celavano la loro identità indossando abiti maschili se donne e femminili se uomini, tingendosi con il carbone il volto. Erano mascherature ingenue e semplici connesse alle povertà di quegli anni, in cui quasi si fingeva di non riconoscere il mascherato per dargli un po’ di soddisfazione. Ricordo quando nei giorni di Carnevale i mascherati irrompevano in casa mia ed io tentavo di strappare dal loro volto la maschera, senza riuscirci e mentre ad esempio bastonavo la finta gobba di una mascherata fin quando questa alzando la mascherina mi diceva essere Betta, l’unica gobba reale del paese.
Le maschere inoltre introducevano al mondo inferico… Mascherina è ampiamente presente nella prassi medica e chirurgica. Già ai primi del Novecento su Incurabili. Giornale di medicina e chirurgia (1915) si parlava di “un paragone batterioscopico e culturale fra gruppi di casi operati senza guanti e senza mascherina. Nello Zingarelli del 2019 viene definita come «piccolo schermo di tela o altro materiale applicato davanti al naso o alla bocca per proteggere dalla polvere, dalle infezioni etc».
Il Dizionario della lingua italiana De Mauro vi è un’ampia rassegna dei significati e degli ambiti nei quali la mascherina dispiega la sua efficacia: dall’esigenza di occultamento alla motoristica, all’artigianato calzaturiero e così via.
Mariano Meligrana e io, nel nostro Il ponte di San Giacomo (Milano, Rizzoli, 1982, ultime ed. Palermo, Sellerio, 1996), abbiamo fatto riferimento, in un più ampio contesto problematico ad alcune prospettive relative al termine maschera, utilizzando ampiamente la letteratura esistente. Abbiamo cercato di analizzare il rapporto maschera-morti negli ambiti nei quali è riscontrata la presenza rilevante di persone mascherate: il carnevale, il teatro popolare, le feste religiose. Secondo l’interpretazione di Toschi, «Carnevale è una festa propiziatoria della fertilità della terra, dell’abbondanza delle messi. Ora, per generare la nuova spiga o la nuova pianta, il seme deve trascorrere un periodo più o meno lungo sotto terra. Là, nel buio delle plaghe inferne, stanno le potenze della generazione, le divinità sotterranee, i démoni, le anime degli avi che nella giornata fatidica del ricominciamento dell’anno dell’eterno ritorno del ciclo produttivo, evocati da appositi riti, compaiono sulla terra, e vi esercitano la loro forza». Pertanto «le maschere di Carnevale sono esseri del mondo degli inferi, dèmoni e anime dei morti»1.
Con specifico riferimento al lavoro di Toschi, Hubert Damisch ha affermato: «[…] da una parte la maschera è un intruso e come tale deve essere cacciato via se non ucciso […]; dall’altra parte è un fantasma resuscitato, di cui non ci si può sbarazzare senza prima festeggiarlo e cercare di ammansirlo (la festa non ha forse lo scopo, almeno in parte, di liberare delle maschere il corpo sociale, di fissare un termine al loro ritorno?). In effetti i morti ballano in mezzo alle maschere del Carnevale in un grande schiamazzo macabro senza bisogno di ricorrere al ricordo del baccano dionisiaco […]»2.
Per Camporesi, «il grande ritornante, Carnevale (il morto che ritorna, il renevant che dà vita e prosperità, il passato che coesiste col presente e nel presente, il nuovo che distrugge il vecchio in un rituale ciclico di partenze e di ritorni, in una ininterrotta catena di uccisioni e di nascita, di morti e di risurrezioni) sembrava aver realizzato al di là delle acque, non temporaneamente ma definitivamente il tempo mitico del paradiso, della pienezza primordiale»3. Abbiamo già richiamato, inoltre, le osservazioni di Dorsa sul carnevale come tempo dei morti e sui rituali commemorativi con distribuzione rituale di cibo ai poveri.
Ma già in presenza del cadavere è dato ritrovare nel folklore europeo quelle maschere cha appariranno nelle feste dell’anno nuovo. Rifacendosi all’indagine di Br?iloiu e Stahl, su Nerej, de Martino poneva in evidenza nella descrizione di una veglia funebre come in tale villaggio «appaiono maschere – evidentemente larvae di antenati morti – che eseguono fra loro e con le persone non mascherate giuochi e rappresentazioni sceniche varie: si tratta delle stesse maschere che gli abitanti di Nerej impiegano nelle feste dell’anno nuovo […]. Nella veglia a Nerej noi abbiamo un esempio interessante della trasformazione della esposizione del cadavere in una festa dei morti, in cui cioè i morti tornano per essere variamente respinti e liquidati: il che avviene […] anche nelle feste stagionali»4.
Il collegamento con il mondo dei morti può avere, infatti, una specifica maschera. Nella loro ricerca sul Carnevale in Campania, A. Rossi e R. De Simone individuarono in molti dei riti esaminati maschere esplicite della morte. «Il tipo più antico, un uomo ricoperto da un lenzuolo, con il volto ricoperto da un velo, è la morte nella rappresentazione: l’uomo forte e la morte data nel 1973 a Galluccio (Caserta). Le altre maschere sono uomini vestiti di bianco con il volto ricoperto da maschere di tipo commerciale o eseguite localmente (Celsi)»5.
La maschera, inoltre, in quanto campo di tensione dialettica – io-altro, essere-non essere, unità simbolica di ciò che altrimenti è disgiunto – rinvia, al fondo della varia e degradante fenomenologia, all’archetipo vita-morte. «La maschera, nel registro dell’immaginario, è infatti congiuntamente segno e strumento della definizione del medesimo, della eclissi dell’identità, della scissione dell’Io, del suo sdoppiamento, del suo ritorno sotto l’apparenza dell’altro; l’altro può a sua volta essere pensato indifferentemente secondo le modalità dell’esclusione e dell’inclusione (non ritorna se non ciò che è stato censurato, rimosso; ma non viene rimosso, censurato, se non ciò che può tornare e tornerà)»6.
In quanto tempo rituale per l’irruzione dei morti nel mondo storico e per il mitico viaggio dei viventi verso il sotterraneo e l’inferico, il Carnevale deve svolgersi «sotto la copertura della maschera, e con il sotterfugio dell’altro». Il contatto può così stabilirsi in un regime di immunità.
A Prizzi, in Sicilia, durante «la Quaresima un gruppo di giovani sfila per le vie del paese recitando un mimo mascherato che vede i partecipanti coperti da sacchi neri, e da orrende maschere. Sono i diavoli e hanno in mezzo a loro la morte, nascosta sotto una maschera dove la fantasia popolare sbizzarrisce l’antico mito della paura e della tragedia in forme grottesche. Armata di balestra la morte prende di mira i passanti; chi è colpito viene afferrato dai diavoli e portato di peso in una taverna dove pagherà da bere a tutta la compagnia, tra lo scherno degli astanti. I diavoli stanchi e trafelati, afflosciati dal vino vengono via via sostituiti da altri animosi e la scena […] continua […]. Un angelo lega diavoli e morte e li trascina al cospetto di Maria; qui vengono tolte le maschere e un’offerta in denaro a Santa Anna mette fine al frenetico abballu»7.
Il rito è tuttora presente nella vita culturale della comunità. Le ultime volta in cui lo seguii direttamente fu nel 1970, nel corso di una ricerca sul Venerdì Santo in Calabria e in Sicilia8 e poi nel 1977, anno in cui è stata eseguita una registrazione televisiva9.
La pandemia attualmente imperversante ha confinato tutti questi significati in un passato più o meno remoto, da ricordare o obliare, imponendo l’unica realtà della mascherina che indossiamo quando usciamo di casa, per proteggere gli altri e noi stessi dal possibile contagio, costituito dai nostri eventuali colpi di tosse o goccioline di saliva che si disperdono nell’aria.
Giuseppe Antonelli in Sette, Supplemento al Corriere della Sera, 29.5.2020, risalta un’altra definizione dello Zingarelli, del 1978: «canovaccio della melodia di una canzone composto di numeri e parole a fantasia che serve ai parolieri per adattare i versi». «In effetti – egli aggiunge – per adattare i versi alla musica, bisogna rispettare una serie di obblighi che rischiano di limitare la libertà e la creatività linguistica: frasi brevi, accenti, rime. Anche per le parole, insomma, la mascherina è una gabbia da cui non è facile uscire: una griglia che costringe ogni volta la realtà nelle caselle di un immaginario cruciverba».
Gabbia di parole, certo, è, come tutte le gabbie, anche questa può dare l’idea di una costrizione, l’impressione di un soffocamento; è pur vero che una gabbia siffatta consente al pensiero di fluire come discorso, linguaggio ordinato che conferisce senso alle impressioni altrimenti confuse, alle suggestioni altrimenti labili. Quindi atta a restituire al discorso la sua alta verità, il suo fondamento vitale.
Dal gioioso «Ti conosco Mascherina!», all’attuale mascherina, necessaria protezione dalla diffusione del coronavirus, molto tempo è trascorso e la gioia è stata sostituita, imperiosamente dalla diffidenza, dalla paura, dal terrore.
Così per Pirandello le maschere potevano essere nude, oggi, nudi sono i volti rivelando la loro immensa fragilità, oggetto possibile della nostra derelitta pietà.