Tra Saltarelli e Furlane

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Le danze di tradizione nelle Marche

Una regione, più culture

Le Marche sono la regione collocata geograficamente nella parte centro-orientale della penisola italiana, fra l’Appennino tosco-umbro-marchigiano e il mare Adriatico. Mediamente estesa, detiene perpendicolarmente al mare una fascia montana, una collinare ed una litoranea, con fiumi e valli che l’attraversano orizzontalmente. La sua economia per secoli basata su attività boschive, pastorali, agrarie, marinare, artigianali e commerciali, è mutata negli ultimi decenni, puntando su una crescente industrializzazione delle aree valligiane e litoranee col rifiorire di numerose piccole e medie aziende, e su una crescente promozione del turismo artistico, religioso (fra tutti spicca per attrazione il santuario di Loreto) e culturale (ad esempio la Recanati leopardiana o l’universitaria Urbino), oltre che balneare ed ambientale.

Prima di appartenere all’Italia unita, la regione ha fatto parte per secoli - pur nell’incertezza e nella mobilità dei suoi confini - dello Stato della Chiesa. Ma la sua cultura etnica, osservabile oggi attraverso le forme espressive, si articola in fasce geografiche diverse e rivela una complessa stratificazione diacronica di presenze umane e culturali differenti, che si sono alternate sul territorio nei vari periodi storici. Osservando e documentando oggi i saperi tradizionali locali, soprattutto attraverso le spie linguistiche, canoro-musicali, coreutiche, architettoniche, artigianali, narrative e rituali, si coglie bene il senso del lascito plurimo dei popoli e delle relative culture che si sono insediate su queste terre ed hanno lasciato dei propri retaggi, che via via si sono fusi con i saperi precedenti, depositati e radicati nel vissuto delle proprie genti. Insomma, tutto ciò che sul piano espressivo e cognitivo-esperienziale ogni area e ogni comunità della regione oggi evidenzia, è - come sempre - il frutto di sincretismi culturali. Sotto un’unità amministrativa regionale convivono una molteplicità di culture etniche diverse: il Montefeltro e l’intera provincia di Pesaro-Urbino denota, ad esempio, una forte vicinanza e assimilazione con la Romagna; l’area centrale dell’Anconetano e del Maceratese ha caratteri più propri (che a loro volta influenzano la zona appenninica e occidentale dell’adiacente Umbria), mentre il Piceno evidenzia analogie con la cultura abruzzese del Teramano e con la cultura meridionale. La cosa più sorprendente è notare come i linguaggi dialettali, etnomusicali ed etnocoreutici sono localmente omogenei e seguono la stessa mappatura di distribuzione geografica di tipologie culturali, a dimostrazione dell’intreccio fra sapere circolante ed elaborazione particolare che ogni comunità ha saputo costruire al proprio interno, facendo sì che i tratti caratterizzanti, pur mutando gradualmente di borgo in borgo, denotino comunque una concomitanza ed un’appartenenza areale.

 

L’indagine etnografica

nei territori della Marca 

e stato di conservazione

del patrimonio etnocoreutico

Nel panorama degli studi etno-demologici italiani, le Marche hanno beneficiato di numerose indagini etnografiche locali, mentre mancano indagini sistematiche, capillari, accurate e comparative dell’intero territorio regionale e del confronto con regioni attigue. Sul piano prettamente etnocoreologico la regione risultava, rispetto ad altre aree italiane, fra le meno documentate e le meno studiate sino agli anni ’80 del secolo scorso.

Mannocchi Luigi, Giovanni Crocioni e Giovanni Ginobili sono stati gli etnografi più importanti della prima metà del XX sec. pur se con impronta umanistica tardo-ottocentesca. Essi hanno fatto da precursori alle indagini folkloriche successive. Dal punto di vista etnomusicale, oltre alle raccolte di Lomax-Carpitella (25 brani) e Nataletti (6 brani), presso l’Archivio RAI, quella di Arcangeli (126 brani) depositata presso la Discoteca di Stato a Roma, vi sono ampie raccolte private frutto di campagne antologiche o tematiche di ricerca come quelle compiute da Gastone Petrucci del gruppo “La macina” di Jesi, da Gala dell’Ass. “Taranta” di Firenze e da Cecchi della Cassa di Risparmio di Macerata, quelle brevi o parziali dagli studenti del DAMS di Bologna e dell’Università di Roma, oppure le raccolte amatoriali locali da parte di appassionati, di cui spesso è difficile venire a conoscenza.

Numerosi i generi tematici canori e le arie melodiche corrispondenti emersi durante le varie esperienze di ricerca: le serenate, il canto a batoccu, il canto a lavorà, il canto a potà, il canto a fienà, il canto a verroccio o barroccio, il canto alla birbantesca, la pasquella, lo scacciamarzo, la passione delle ore (o “le 24 ore”), il cantamaggio, il “cantà a prosciutto” o “cantà a pancetta” dimostrano una vitalità espressiva e culturale del mondo contadino marchigiano.

In campo etnocoreologico, la ricerca più ampia e per diffusa campionatura è stata effettuata dal sottoscritto, a partire dall’ottobre del 1979. Proprio partendo dalle Marche, e precisamente dal borgo di Petriolo (MC) è iniziata la raccolta documentaria audiovisiva sulla danza tradizionale italiana oggi più vasta in assoluto e giacente nell’Archivio di Documentazione Etnocoreutica dell’Ass. Cult. Taranta di Firenze1. L’indagine è stata realizzata in più fasi temporali discontinue. Solo dal 1987 ho ampliato la ricerca etnocoreutica, fulcro centrale della mia indagine, nel resto della regione con varie campagne di documentazione audiovisiva, che durano tuttora. Gli studi successivi mi hanno permesso di analizzare le diverse modalità esecutive del saltarello nella regione e di confrontarle con quelle delle regioni circostanti, nonché di documentare numerosi altri balli in situazioni talvolta di riesecuzione in vitro di anziani ballerini, talvolta in forme ancora attive e funzionali in feste di paese.

In un arco di tempo così lungo della ricerca, è stato possibile documentare anche l’evoluzione e soprattutto la dispersione del repertorio e di alcune tecniche esecutive canore, strumentali e coreutiche della zona. 

Negli ultimi anni si assiste a tentativi di indagini territoriali finalizzati, più che allo studio approfondito di strutture e contesti culturali dell’etnodanza, al recupero delle sole forme esecutive dei balli e delle rispettive musiche da parte dei gruppi folkloristici di spettacolo e dei gruppi di interesse degli ambienti cosiddetti di “ballo folk”, al fine di copiare e rieseguire in situazioni decontestualizzate le danze. Tale movimento di consumo solo formalistico dei balli, insieme a danze di provenienza popolare di altre regioni italiane (prevalentemente del Meridione, che esercita negli ultimi lustri una grande forza di attrazione) ed estera, sta portando piccole nicchie di appassionati alla pratica di modelli generici e superficiali, permettendo anche la nascita di figure professionali di insegnanti di ballo e di artisti di musica estranei alle differenti tradizioni locali. Così omologazione, creazioni di falsi modelli e contaminazioni sincretiche portano a perdere i modelli originali locali, piuttosto che invigorirne la pratica nei luoghi di proprietà e di origine.

Tale processo induce, man mano anche che le anziane generazioni depositarie muoiono, a perdere ricchezza e proprietà esecutiva, che si osservavano ancora trent’anni or sono nella regione, da parte di coloro che per una vita intera avevano praticato quel linguaggio coreutico incorporato sin dall’infanzia e assimilato dai loro avi in situazione di funzionalità regolare prima dell’ultima guerra. 

Il nuovo consumo del ballo folk contorna talvolta l’uso di balli altrui con una sorta di mitizzazione degli interpreti più disposti alla notorietà e ad antichizzare presunte ascendenze dei repertori, ricadendo talvolta nella facile trappola di un’immagine oleografica del passato e creando, grazie ai social e al web, protagonismi e divismo, estranei alla tradizione contadina. Oggi la necessità di rappresentanza culturale cede il passo al protagonismo gratificante degli interpreti e alla creazione di una sorta di icona residuale e nostalgica.

 

Le occasioni del ballo

Le Marche da tempo hanno perso molte delle antiche feste religiose a cui si associavano i pellegrinaggi; in quelle occasioni era facile trattenersi nei dintorni dei santuari e trascorrere il tempo non sacro in compagnia e allegria con canti, musiche e danze. Matrimoni, raccolte agrarie, le veglie invernali, i carnevali, le uccisioni del maiale, la nascita dei figli e le questue erano le occasioni rituali in cui sorgevano situazioni di ballo. Il canto e la musica si compenetravano con la vita quotidiana e festiva, e la colorivano di suoni appropriati secondo il tempo, le funzioni e le situazioni. Il metro ritmico-poetico più usato in molti balli cantati è senz’altro l’endecasillabo, com’è tipico della gran parte della produzione canora dell’Italia centro-meridionale; il primato dell’endecasillabo permetteva di rendere polifunzionali e transitabili i testi, per cui gli stessi potevano essere piegati nelle varie melodie codificate dalla comunità e servire, secondo i casi, ad accompagnare il ballo, a trasformarsi in canti di lavoro o di serenata, mentre altri canti erano legati ad una ricorrenza specifica, come quelli religiosi o questuali.

Se la tradizione del ballo è andata spegnendosi, più tenace e radicata sembra la pratica del canto e della musica, perché più legata a quegli appigli di resistenza culturale rappresentati dalle questue rituali: pasquelle, carnevali, scacciamarzo, passioni, cantamaggio, serenate, cantare “a prosciutto” (in occasione della nascita del primogenito o di un figlio) e cantare “a spalletta” (per la nascita di una figlia); tali eventi hanno funzionato da legami con la tradizione passata, mentre più fragili si sono rivelati i canti di lavoro, narrativi e di intrattenimento vario, perché sono venute meno le situazioni che sostenevano tali generi.

Negli ultimi decenni vi è stata una valorizzazione del patrimonio canoro prima (con la riscoperta e rivitalizzazione di rituali questuali della Pasquella, dello Scacciamarzo, della Passione e del Cantamaggio) e, più di recente, di quello etnocoreutico.

Gli insediamenti abitativi della regione, caratterizzati da piccoli borghi e fattorie disseminate nelle aree di coltivazione agraria hanno contribuito a conservare alcune espressioni della cultura contadina precedente. Fatto curioso e particolare delle aree centro meridionali marchigiane è stata la moda di organizzare negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso gare di saltarello. Questa nuova usanza, strutturata da pro loco con coppie candidate e numerate, osservate e giudicate da giurie organizzate, oltre a rendere competitivo e spettacolare il ballo, stimolava a nuovi virtuosismi cinetici e resistenze fisiche i ballerini, è servita a valorizzare e perpetuare i vari modelli di saltarello.

 

LE DANZE

 

Il Saltarello

(sardarellu, sartariellu)

La danza etnica che più caratterizza la regione delle Marche è senza dubbio il saltarello, sino ad assumere il ruolo di principale emblema della cultura popolare marchigiana. Dal Piceno sino all’Anconetano il saltarello si presenta come una danza in coppia, prevalentemente mista, di carattere vivace, dal ritmo sostenuto, con cinetica virtuosistica e di breve durata, a causa del gran dispendio di energia impiegata da parte degli esecutori. Dunque nella parte centro-meridionale della regione le feste erano caratterizzate dalla presenza di questo ballo, che variava spesso, anche se di poco, da paese a paese. La sua presenza era talmente sentita ed emergente, che ad esso di solito si accompagnavano pochi altri balli etnici.

Appartenente alla più ampia e diversificata famiglia dei saltarelli o saltarelle, che più di altri balli caratterizzano varie regioni dell’Italia centrale (Marche, Umbria, Abruzzo, Lazio e Molise), lu sardarellu anconetano, maceratese e piceno si presenta con l’alternanza di una coppia per volta, sempre con ritmo vivace ed è eseguito da diversi decenni dall’organetto, strumento dominante nell’esecuzione di questo ballo, che è prevalentemente a due bassi nel Piceno e a 4 o preferibilmente a 8 bassi fra Maceratese e Anconetano. L’organetto è accompagnato ancora oggi da percussioni come il tamburello (ossia “cembalo”: cimmulu, ciandimmulu, cìmbene, ecc.), dal triangolo (tìmbanu, timbulu) o castagnola (gnaccara). Il saltarello si balla in coppia, preferibilmente mista (uomo-donna), ciascuna coppia balla per un tempo breve perché la danza è energica e faticosa. Nel Montefeltro prevale l’uso della fisarmonica come strumento principale per far danzare.

Nel Piceno – per contiguità con l’area abruzzese – i saltarelli si presentano come danza a struttura aperta, composti da ballo (o saltarello, con abbellimento a spuntapiede) e giro (o filò). L’esecuzione procede autonomamente mentre i ballerini eseguono le varie parti liberamente attenendosi alla ritmica di base.

In alcuni paesi della valle del Tronto il ballo è chiamato al femminile saltarella, come in Abruzzo; in quest’area, inoltre, abbiamo rilevato la presenza di forme di saltarella in cerchio, eseguite da più persone o più coppie.

I saltarelli del Fermano, del Maceratese e dell’Anconetano sono invece danze a struttura chiusa, si dividono cioè in parti codificate e l’esecuzione musicale, alternando le due o tre parti di cui si compone il brano a seconda delle zone, obbliga i ballerini ad eseguire le parti coreografiche corrispondenti. 

La struttura coreo-musicale del saltarello del Fermano è in genere bipartito: spundapede (parte frontale eseguita sul posto) e filò (giro antiorario della coppia legata). 

Nella media valle del Chienti la struttura è tripartita: jiru (giro generalmente antiorario, sciolti o legati) eseguito durante la parte strumentale; spondapiè (“spuntapiede”), eseguito sul posto o appena in movimento durante la parte cantata e infine la parte vassa (con lu filò) quando cioè il suonatore inserisce con l’organetto delle parti a “smanticiata” o “spizzicata” di mantice.

Il vecchio modo di ballare era quello di rimanere separati, a meno che la coppia non fosse imparentata. Più tardi sembrò una licenza poter prendere la dama con du’ dete (due dita), per poi arrivare a ballare legati per braccia o con mano dietro la schiena della donna. Si era già perso prima dell’ultimo dopoguerra l’uso ottocentesco di ballare tenendosi col fazzoletto. Il “giro” corrisponde all’apposito motivo, lo spondapè è danzato sulla parte cantata; queste due parti si alternano regolarmente, ogni tanto l’abile suonatore di organetto (che per eseguire la terza parte con cambio di tonalità ha bisogno di un organetto a 8 bassi) inserisce la parte bassa, che altro non è che un faticoso intermezzo con lungo ed insistente tremito di mantice; alla fatica del suonatore combacia la difficoltà dei ballerini che eseguono quel frenetico battere di piede, il quale solitamente in altre parti delle Marche chiamano spuntapiede o scarpetta. Ogni ballerino e ballerina ad un codice comune di base aggiungevano abbellimenti e personalizzazioni, che talvolta venivano poi imitati dai compaesani ed entravano a far parte del linguaggio comune. Lu saldarellu a caccià consisteva nel mandar via da parte di chi voleva entrare nel ballo la persona dello stesso sesso con uno schiocco o battito di mani, oppure entrava una nuova coppia.

La lettura romantica che facevano dei balli descritti nei loro réportages i viaggiatori stranieri ottocenteschi e in seguito la forzatura interpretativa attuata durante il ventennio fascista dalle organizzazioni dei gruppi folkloristici lasciano ancora oggi un retaggio interpretativo di questo ballo tutto piegato verso il corteggiamento erotico e la narrazione ossessiva di una vicenda amorosa; in realtà il saltarello va letto come il ballo più etnico delle Marche centro-meridionali, contenitore di una pluralità di funzioni, codici e valori delle comunità che lo avevano adottato e nel quale si riconoscevano. 

Anche sulla storia di questo ballo v’è ancora molto da scoprire e da correggere. Pur se etimologicamente porta i segni del saltus e delle saltationes latine, o compare il saltarello come danza aulica già nelle fonti musicali del XIV sec. (British Museum Add. 29987), le forme novecentesche della famiglia coreutica del/la saltarello/a risalgono piuttosto a modelli sei-settecenteschi, mentre sappiamo dalle fonti cinque-seicentesche che in Italia era danzato come ballo a sé lo spuntapiede. I rapporti coreutici ed i transiti di repertori dal mondo colto al popolare e viceversa sono stati diffusi e complessi, e sono in gran parte ancora da studiare. Purtroppo il ballo popolare accusa la carenza di fonti certe e minuziose per la scarsa importanza che la cultura scritta ha dato alle usanze delle classi meno abbienti; l’etnocoreologia oggi studia e ricostruisce la storia del ballo basandosi soprattutto a memoria d’uomo, in virtù anche della forte tendenza della tradizione a perpetuare forme e significati delle proprie espressioni.

Il testo del canto a saltarello si basa sul metro endecasillabo e procede per distici sciolti o su quartine in rima o in assonanza. Si fa uso anche dei cosiddetti “fiori”, strofe la cui rima trae spunto dal nome di un fiore e di un vegetale per comporre brevi quadri amorosi o a dispetto (in quest’ultimo caso quando si vuol dare al canto un andamento scherzoso). Alcune strofe sono maggiormente elaborate con l’aggiunta di chiuse dal carattere ritmo-sillabiche2.

E lo benedico lo fiore de pesce / la pecorella nella montagna nasce / la pecorella nella / montagna nasce. / E la pecorella nella montagna nasce / coll’erba tenerella se nutrisce / coll’erba tenerella se nutrisce.

Se voi pijà marito a Pasquarosa / non me ne ‘mporta se nonc’ha la casa (tris) / Quandu c’è lu marito c’è ‘gni cosa (bis) / Bellina che te piace l’allegria / piglialo pe marito un suonatore (tris) / che allegra notte e giorno ti fa stare (bis).

E lo benedico lo fiore de pepe / come una calamita me tirate (bis) / e me fate venì’ dove volete (bis).

La benedico lo fiore di canna / chi vo’ la canna a lo cannito venga (tris) / chi vo’ la figlia vada da la mamma (bis) / E bellina che te piace l’allegria / piglialo per marito un suonatore (bis) / piglialo per marito un suonatore / che ti fa stare e la / dimmelo bella come te va / dimmelo bella come te sinti / dimmelo bello come se sta / e che allegra notte e giorno / damme la mano e girimo lo torno / e ti fa stare.

E quando siete bellina su so viso / sembri un garofanello ne lo vaso (tris) / lo meglio fiore de lo paradiso (bis). / E l’avete li riccetti lunghi un dito / in mezzo lu garofano c‘è nato (bis) / felice chi sarà il vostro marito (bis).

A Roma a Roma le belle romane / a Macerata le maceratine (tris) / le mejo donne l’ha le marchigiane (bis).

Lo benedire lo fiore de zucca / iette la mamma e me ne dà ‘na fetta (bis) / la figlia più de core me la dà tutta (bis).

E lo benedico lo fiore de rugni / se non porti li denti con che magni (bis) / se non la pigli moglie con chi durmi (bis).

Tutti li piccolini li voglio bene / perché piccolinello è lo mio amore (bis)

E lo benedire lo fiore de limone / lo zucolo l’ho calato in un bicchiere (tris) / il cuore l’ho donato a lo mio amore (bis).

S’è levato lo vento marino / me l’ha levata la palma de mano (tris) / me l’ha portata a lo mare torchino (bis).

Lo benedire lo fiore dell’olmo / fino l’avanti casa t’accompagno / me dai un bacin d’amore e me ritorno (bis)

Giovinettuccia che cogli l’oliva / e con la manina la teni da rama (bis) /è la vostra gioventù la mia rovina (bis).

E rivolto e lo rivolto lu cappello / più lo rivolto e più mi pare bello (bis) / e gira l’organetto e lo tamburello / lo tamburello è là / dimmelo bella come se fa. / Dimmelo bella come te sinti, / dimmelo bella come te va (se sta) / voci dell’organetto / dimmelo bella dove me metto /lo tamburello.

E l’avete li ricetti fatti a nave / ogni piccolo vento ve li move (bis) / che non è ricci naturali

Quando lo sole se ne và a calare / pare che le trascina le catene (bis)

Tira lo vento la baja si move, /l’amante vecchia vole ritornare (bis)

Lo benedire lo fiore de pesce / la pecorella a la montagna nasce (bis) /con l’erba tenerella si nutrisce (bis)

E l’avete li ricetti fatti a nave / ogni piccolo vento ve li move (bis) / segno che non è ricci de naturale (bis)

Quandu lu sole se ne va a castello / e lu monte se diventa verde e giallo (bis)/ il viso de lo mio amore diventa bello / e diventa bello là / dimmelo bella ma come se fa / dimmelo bella come se tinge / dimmelo bella ma come se sta / al sole lo mio amore / damme la mano lallire lillore /quanto diventa bello.

Lo benedire lo fiore de pepe / e tutte le fontanelle disseccate (bis) / povera bella mia more de sete (bis)

Lo benedire lo fiore d’argento / la camminata tua mi piace tanto (bis) / perché cammini col cuore contento (bis) / Giovanettuccio garbatino e lesto / de le bellezze sei nato provvisto (bis)

C’avete due riccetti a mezza testa / fate morì gli amanti a prima vista / c’avete due ricetti a mezzo capo / fate morì l’amante disperato (bis). / Voglio pijià marito a Pasquarosa / non me ne ‘mborta se non c’ha la casa (bis) / quando che c’è marito c’è ogni cosa (bis)

Lo benedire lo fiore de fava / prima lu fa lu fiore e poi la teca (bis) / la mamma fa l’amore e la fijia ‘mpara (bis) / [la fija fa l’amore è piccolella / la mamma fa l’amore perché è bella]

Lo benedire lo fiore de pepe / c’avete gli occhi niri e me guardate (bis) / non me sapete di’ cosa volete (bis) / [e me fate venì dove volete]

E me ne vojio jire mare mare / tu bellinello non ce poi venire (bis) / l’acqua saporitella ti fa male (bis)